minimum fax, 2020
pp. 153
€ 14,00 (cartaceo)
€ 7,99 (ebook)
Luciano Bianciardi muore male, ancora troppo giovane. Muore amareggiato dalla vita, deluso dalla società. Ciò che non lo aveva deluso, invece e sorprendentemente, era l’ideale del Risorgimento, coltivato sin dall’infanzia grazie al padre, che gli aveva regalato I mille di Bandi, su cui lui aveva innestato i suoi valori giovanili. Lo seduce il piccolo Peppino, figlio di mamma Rosa e papà Domenico, che parla dialetto genovese e si distingue per l’irruenza e gli slanci generosi, per i sogni grandi che non accettano imposizioni esterne. Ci pare di vederlo, mentre la prosa affabulatoria di Bianciardi ci accompagna, slanciarsi agile e compatto tra le sartie del porto, con la sua testa bionda.
In tutti i posti di mare c’è almeno un ragazzo fatto così, quello che non si tira indietro, quello che offre da bere, quello che sa le canzoni, quello che si arrampica per primo in cima un albero, o sulle sartie delle navi. Al porto lo conoscono, tutti lo chiamano per nome: i grandi gli perdonano più cose che ai suoi coetanei: i coetanei gli vanno dietro. Può darsi che col crescere metta, come suol dirsi, la testa a posto. Può anche darsi il contrario, e allora questo ragazzo diventa un capo: e non perché si imponga al suo prossimo, ma perché il prossimo lo sceglie, e gli va dietro. Peppino era fatto così. (p. 23)Nelle pagine di questo esile volume, l’ultimo scritto dall’autore e pubblicato postumo, la Storia, quella dei grandi processi, si mescola a quella dei personaggi – fatta romanzo non tanto dalla mente creatrice di Bianciardi, quanto dalla natura stessa dei fatti e dei suoi protagonisti. Garibaldi è infatti l’eroe romanzesco, finanche romantico, per eccellenza. È bello, idealista, osteggiato dai potenti e spesso anche dalla sorte. Implicato in una grande storia d’amore finita tragicamente. Figura mai arresa, travolgente, carismatica. Nel ripercorrerne le vicende, mantenendosi fedele alla linea già tracciata dalle Memorie di Garibaldi stesso, Bianciardi intervalla alla narrazione sapidi commenti che la integrano, la spiegano, la interpretano. Al tempo stesso, tratta l’eroe dei due mondi con la confidenza di un vecchio amico, come fosse una figura familiare che si guarda con orgogliosa bonarietà nel suo muoversi nel mondo.
Garibaldi non aveva la stoffa del commerciante, e per quadrare il bilancio familiare (via via nascevano altri figli: Ricciotti, Teresita, Rosita) dovette ricorrere agli espedienti più diversi; perfino a fare l’insegnante privato: non sappiamo con quale profitto per gli alunni.
Ma non poteva certo durare a lungo così. Garibaldi non era uomo da starsene a lungo con le mani in mano, e nel Sudamerica di allora – come in quello di oggi – non mancavano le mani per menarle: confusamente, i vari Stati lottavano per uscire dalla condizione coloniale, patente o larvata. I colpi di stato si susseguivano con una frequenza quasi incredibile (non sono ancora oggi finiti). (p. 40)
Bianciardi conferma in quest’opera un gusto straordinario per la frase incisiva, per la sintesi brillante. Il talento descrittivo, che risiede nella capacità di cogliere il dettaglio che incarna la persona tutta, si estende da Garibaldi ai comprimari (Mazzini, Cavour, Vittorio Emanuele...). Spesso egli gioca con gli stereotipi, si abbandona all’ironia, si concede frecciatine, indulgendo in dubbi ma lapidari giudizi storiografici (“era evidentemente una pagliacciata e bastò una parola assennata del re per distoglierne Garibaldi”, p. 77), crea ponti con il contemporaneo.
Qualche volta noi scherziamo con tutti i busti, le targhe, le lapidi che si trovano in ogni piazza d’Italia e ci chiediamo: “Ma c’è un posto dove non sia stato Garibaldi?” Ebbene, Garibaldi fu dappertutto e dappertutto portò la sua presenza e la sua parola. La propaganda esisteva anche allora. Eccome! (p. 65)
Si coglie nel testo il desiderio dell’autore di restituire luce al mito risorgimentale prima celebrato, poi a lungo socialmente vilipeso. E questo intento non è incompatibile con l’altro, apertamente dichiarato, di voler tirare l’eroe giù dal piedistallo su cui è stato posto dalla politica e dell’ideologia, di volere “ritrovarlo uomo” (p. 148). Poco importa che, come osserva anche De Cataldo nella postfazione, “da uno come lui, anarchico, ribaldo, irriducibilmente mai riconciliato con una qualche astratta normalità [...], al culmine di una vita urlata, di un’esistenza ‘contro’, ci si aspetterebbe la desacralizzazione del sacro, la demitizzazione del mito, l’abbattimento della statua, il disegno dei baffi alla Gioconda” (p. 149). Si ritrova invece una passione viva, ancora ardente, anche al termine di un’esistenza disillusa. Questo è mito che sopravvive, mito che va tenuto in vita, anche rifacendo di Garibaldi “uno di noi”, come a lungo è stato nell’immaginario popolare. Forse proprio nel restare fedele alla prima immagine del Generale, quella fulgida e dirompente in seguito sminuita e a tratti bistrattata, risiede l’atto eversivo dell’autore. Sotto la sua penna agile, le imprese dei Mille si snodano rapidissime sulla pagina, e con folgoranti sortite più a Nord Bianciardi ci mostra gli effetti che la loro avanzata inarrestabile ha sulle altre forze in campo:
Quelli di Torino sono presi dal panico: cosa ha in mente questo Garibaldi? Dove vuole arrivare? A Napoli? O non addirittura a Roma? Dunque non erano storie quelle che andava raccontando, di voler incoronare Vittorio Emanuele re d’Italia, in Campidoglio? E se succede questo, come la mettiamo con Napoleone, fervente protettore del Papa? E l’Austria? (p. 100)
L’approccio di Bianciardi non è quello dello storico, pur essendo uno che la storia, e specialmente questa storia, la conosce bene: egli lascia emergere apertamente le sue simpatie e talvolta si mostra impietoso (viene liquidato in poche righe, ad esempio, l’operato del ministro Rattazzi, “il quale ricominciò a fare la parodia di Cavour, a pasticciare come prima”, p. 129). Eppure in questo suo sbilanciarsi riesce a trasmettere il sentimento di un’epoca, il carattere dei personaggi quale emerge dalla vivida impressione del loro agire. Nell’arco di poche pagine, il lettore si trova avvinto, apertamente schierato. Per il breve volgere della lettura, si fa schiettamente il tifo per Garibaldi. E poco importa che chi già ne conosce le gesta non trovi in questo breve volume qualcosa di inedito. Si legge Bianciardi per lo spirito, prima che per i meri contenuti.
Carolina Pernigo