Una donna quasi perfetta
di Madeleine St John
Garzanti, 2020
di Madeleine St John
Garzanti, 2020
Traduzione di Mariagiulia Castagnone
pp. 240
€ 16 (cartaceo)
€ 16 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
Una donna quasi perfetta, di Madelein St John, è uno dei romanzi più inglesi che mi sia capitato di leggere negli ultimi tempi: c’è in questo libro tutto il piacere della conversazione arguta, la cura delle apparenze e il controllo delle emozioni che sì, forse rischiano di essere elementi un po’ stereotipati con cui etichettare un popolo e la sua letteratura, ma che senza dubbio richiamano una certa atmosfera. Si va a spasso volentieri dentro questo romanzo, costruito in buona parte per dialoghi efficacemente resi dall’uso puntuale che St John sapeva fare della parola ed egregiamente restituiti dalla traduttrice Mariagiulia Castagnone in questa edizione di recente pubblicata da Garzanti.
St John è stata un’interessante riscoperta degli ultimi anni, grazie soprattutto al suo romanzo di maggior successo, Le signore in nero, accolto con entusiasmo da critica e pubblico, tanto all’estero quanto nel nostro Paese. Una popolarità che, come spesso accade, le ha appiccicato addosso qualche etichetta a mio parere un po’ fuorviante o quantomeno non del tutto appropriata – vedi per esempio il richiamo a Jane Austen – perdendo di vista le peculiarità dell’autrice e della sua scrittura.
Quello che personalmente mi intriga di questa scrittrice australiana naturalizzata inglese è senza dubbio l’interesse per la questione femminile, fil rouge che lega ogni suo scritto, osservata da angolazioni e con risultati differenti ma una costante nella produzione letteraria di St John, insieme al gusto come si diceva per il dialogo, l’ironia pungente, l’interiorità dei personaggi.
In Una donna quasi perfetta certe aspettative vengono solo in parte soddisfatte eppure il romanzo funziona, si apre a spunti di riflessione che vanno oltre la pagina e spinge il lettore a soffermarsi sul non detto, su quanto rimane tra parentesi più ancora che su quello che va in scena.
La “colpa” più grave di St John è proprio quella di averci abituati a una scrittura raffinata, a un femminismo che esplode sulla pagina in dialogo costante con la contemporaneità tanto sono primarie e universali le sue istanze, ma non sempre è possibile mantenere tali premesse. In questo caso, quindi, è come se la scrittura fosse stata trattenuta, imbrigliata, quando sappiamo benissimo dove avrebbe potuto portarci St John se la parola fosse fluita libera. Una debolezza che, per contro, fa guardare a questo romanzo come a quello per certi versi più attaccato alla realtà o, perlomeno, a un certo tipo di realtà come ce la aspettiamo.
Queste donne – o sarebbe meglio stato dire queste “vite” – quasi perfette hanno coscienza del disagio, di qualcosa che pur risultando difficile da identificare è inequivocabile che non vada, ma aspettiamo invano un punto di rottura, di non ritorno, che non può arrivare. E, proprio qui, nelle apparenze, nella superficialità di certi rapporti, nelle convenzioni che non si riescono fino in fondo a infrangere, risiede forse la forza del romanzo, teso tra ironia, cinismo, leggerezza e dramma.
Il perno della narrazione è il matrimonio, una materia che non smette mai di affascinare scrittori e lettori per le molteplici possibilità di riflessione: St John ne racconta, attraverso il rapporto di Flora e Simon, la quotidianità di un matrimonio di lungo corso, un po’ logorato dal tempo, le bugie e i non detti che si insinuano tra loro, l’inganno del tradimento. E di questa relazione extraconiugale, così come delle persone coinvolte, St John ci svela fin da principio, nel capitolo di apertura: Simon e la sua amante, Gillian, a cena in una discreta brasserie, sorpresi da un’amica della moglie, Lydia. Pronti a scoprire cosa succederà, quali evoluzioni immediata avrà tale incontro, St John sorprende il lettore e lo inchioda alla pagina tornando indietro nel tempo, raccontando come siamo giunti in quel ristorante, svelando un pezzo dopo l’altro l’animo dei partecipanti a questo spettacolo, un po’ commedia e un po’ dramma. Riuscendo a convincerci, pagina dopo pagina, che quello che conta alla fine non è l’esplosione – se mai ci sarà – ma tutte quelle piccole meschinità e frustrazioni quotidiane che sono le crepe sulla facciata di vite quasi perfette, come vorrebbe credere ogni figurante in scena.
Si era dimenticato del modo in cui l’amava. Quanto l’amasse era un altro problema – e poi chi era in grado di misurarlo? Comunque poteva mai negare i suoi sentimenti dopo tutti quegli anni, tutti quei figli? Ma come l’amava: che tipo di amore era, come lo esprimeva. C’era qualcosa che non andava, e forse era solo colpa sua. (p. 142)
Il punto per Simon non è amare la moglie, quello è un dato di fatto, perché come potrebbe essere altrimenti dopo «tutti quei figli» e nel più classico degli stereotipi che però St John riesce a rendere credibili è innamorato anche dell’amante, di un amore diverso perché diverse sono le ragioni e i presupposti. Eppure c’è consapevolezza di qualcosa che nel tempo si è logorato, questa a mio avviso la parola chiave con cui interpretare il romanzo, qualcosa che si è inceppato nel meccanismo matrimoniale.
Nonostante il ruolo cruciale di Simon, sono però le donne le protagoniste assolute della narrazione.
Flora, moglie e madre, un lavoro interessante e non troppo impegnativo, interessi e amicizie da coltivare, le vacanze dalla piovosa Londra al Sud della Francia, solo per brevi momenti indugia su quella sensazione di disagio, di infelicità, che sembra aver pervaso la sua vita. Forse la scoperta della fede potrà darle conforto? E siamo davvero sicuri che suo sia il ruolo della moglie tradita che nulla poteva sospettare?
Come faceva da tanto tempo, tenne per sé la sensazione dolorosa che qualcosa non andava, qualcosa che non era in grado di identificare, a cui non poteva porre rimedio. (p. 143)
Gillian, l’amante, una carriera di successo nella City, l’indipendenza e qualche relazione fugace, non pretende nulla da Simon ma allo stesso tempo non si interroga più di tanto – o perlomeno al lettore non è dato sapere – sul ruolo che sta interpretando, sulle persone coinvolte, sul suo stesso pericolo di restare ferita, delusa.
Lydia, l’amica di Flora, testimone suo malgrado della meschinità di Simon, quello che lei stessa aveva rifiutato in un attimo equivoco, amareggiata per la menzogna di una felicità coniugale solo apparente.
Tre donne da desideri ed esistenze diverse, che si trovano protagoniste e partecipi di quella bugia. E, fortunatamente, St John rifiuta di raccontare una versione edificante della donna, contrapposta a figure maschili difettose, manchevoli: è vero che i personaggi femminili di questa storia risultano in qualche modo più “simpatici” e complessi delle controparti maschili, ma l’autrice abilmente ne tratteggia anche in loro le mancanze, le debolezze, l’errore, verso sé stesse in primo luogo. Perché forse l’inganno, il tradimento peggiore, è quello nei confronti di sé stesse appunto, il tempo e la vita che si accumula un giorno dopo l’altro senza che quel vago malessere e l’insoddisfazione sfocino realmente in qualcosa di concreto.
I rapporti tratteggiati da St John, tanto sentimentali che di amicizia, appaiono logorati o superficiali, privi di quello slancio e profondità che potrebbe salvare.
Quello che ci troviamo tra le mani, quindi, è un romanzo raffinato, che apre a diverse considerazioni su matrimonio, relazioni, desideri e ambizioni, sul tempo che passa e la transitorietà della vita, in dialoghi vivaci che sono appena la superficie perché forse è proprio nei silenzi, nei pensieri inespressi, che possiamo intuire la profondità della riflessione di St John.
Di questa donna moderna, che ha debuttato nell’ambiente letterario a quasi cinquant’anni, con la lucidità di chi si è lasciato alle spalle la ritrosia giovanile e ha raffinato nel tempo il proprio gusto di lettrice e, di conseguenza, di scrittrice. Viene da immaginarseli su un palcoscenico questi personaggi – del resto il mondo dello spettacolo è ben presente nel romanzo – , su quella scena perfetta che è Londra, umida, vivace, mutevole.
Di Debora Lambruschini
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