La città dei vivi
di Nicola Lagioia
Einaudi, ottobre 2020
pp. 459
€ 10,99 (ebook)
Roma, quartiere Collatino, alba di sabato 5 marzo 2016. Marco Prato è in una stanza d’albergo a tentare il suicidio, Manuel Foffo è seduto sul divano di casa sua, al decimo piano di un condominio in via Igino Giordani, e attende il padre per un appuntamento. All’orario stabilito scende in strada, salta in auto quando arriva. Per i primi minuti fissa l’orizzonte, le linee di mezzeria. Poi parla: «Abbiamo ucciso una persona». Il signor Foffo spinge sull’acceleratore, si ritrova a sperare nell’omicidio stradale. Gli chiede come sia successo. «A coltellate. E a colpi di martello». Il cadavere si trova nell’appartamento al decimo piano in via Igino Giordani, a una manciata di metri dal divano su cui Manuel ha atteso, poco prima, il suo arrivo.
Chi è stato sulla scena del delitto ha parlato di un’aria malata, solidamente malata, dentro e fuori la porta d’ingresso. «Esperienze come quella» ha raccontato un carabiniere che era di turno, «ti convincevano definitivamente che il male non era un concetto astratto, ma una presenza palpabile». Così come è palpabile lo sconcerto di Manuel, che ricorda poco e niente delle torture che ha perpetrato ai danni di Luca Varani – un ragazzo di ventitré anni che neanche conosceva – salvo poi, con le manette ai polsi, rigettarle fuori con l’impeto e l’imprevedibilità dei conati di vomito. La giustizia non fatica a farlo collaborare: il suo atteggiamento sembra dire «Spiegatemi voi cos’ho fatto, aiutatemi a capire».
Quanto ad autocontrollo, Marco è invece l’estremo opposto. Nella stanza d’albergo in cui ha provato a uccidersi viene trovato svenuto, ma non in fin di vita. Viene trasferito in ospedale per gli accertamenti, poi dall’ospedale al commissariato per il primo interrogatorio. Ostenta da subito una grande consapevolezza, una capacità fuori dal comune di riorganizzare la cronologia e il senso dei fatti persino quando vissuti nello stato alterato di droga e alcol. Si esibisce, quasi, nel suo tormento, ma contemporaneamente sembra dire: va tutto bene, non ho bisogno di aiuto.
Non c'è un movente, così l’opinione pubblica si sente in dovere di rimediare. Alcuni gridano al delitto di classe. Tre ceti sociali, tre fasce di reddito, tre diverse zone della città, ed ecco gli assassini ricchi e la vittima povera. Altri ci vedono chiaramente la perversione sessuale: un etero ucciso da due gay che avrebbero abusato di lui. Si arriva perfino a ipotizzare il delitto d’opinione – l’ultimo post di Varani sul suo profilo Facebook è in odore di omofobia, e allora gli assassini l’avrebbero ucciso perché era contrario alle adozioni delle famiglie omosessuali.
Cosa sia successo realmente quella notte, in quella casa, in pochi hanno provato a capirlo fino in fondo. Tra questi Nicola Lagioia, che non ha bisogno di presentazioni. La città dei vivi è il suo romanzo-verità, il suo A sangue freddo; Manuel Foffo e Marco Prato i suoi protagonisti. Il lettore può leggere, finalmente, gli ultimi quattro anni di ricerche, appuntamenti, carteggi, interrogativi. E una riflessione profonda sulle origini della responsabilità, della colpa, del libero arbitrio, della forza distruttrice che tutti almeno una volta nella vita abbiamo provato. Che lui, assicura, ha provato.
In occasione della pubblicazione di La ferocia dichiarò che la protagonista le si era palesata in sogno (in un incubo, per meglio dire). La città dei vivi, invece, l’ha fatto tramite un servizio in televisione e, non contenta, con una proposta di lavoro. Si direbbe che siano le storie a sceglierla, più che il contrario.
Il 6 marzo del 2016 è una data che non potrò scordare. Quel giorno la notizia dell’omicidio di Luca Varani cominciò a diffondersi. Rimasi impietrito davanti al televisore. Un ragazzo era morto in un appartamento del quartiere Collatino, a Roma, dopo essere stato torturato per ore, in un modo che ricordava più quello che succede nei peggiori contesti bellici (quei contesti in cui il diritto è sospeso e accade l’inimmaginabile) che nell’ambito dei delitti metropolitani. C’era un reo confesso che non conosceva nemmeno il nome della vittima, e il suo complice, imbottito di sonniferi, giaceva privo di conoscenza sul pavimento di una stanza d’albergo mentre dalle casse del suo cellulare andava ossessivamente a tutto volume Ciao amore, ciao di Luigi Tenco, nella versione di Dalida. Nessun movente. Nessuna antipatia pregressa nei confronti della vittima. Per dei motivi che mi si sono andati chiarendo via via che ho proceduto nel lavoro, e che cerco di raccontare nel libro, sentivo che quell’omicidio mi riguardava nel profondo. Fu il motivo per cui cercai, nei primi giorni, di tenermene alla larga: temevo a ragione che, se solo avessi cominciato a occuparmene, questo caso avrebbe ribaltato la mia vita negli anni successivi. Stavo scrivendo tra l’altro un libro che non credo fosse male, ci lavoravo da mesi. Poi, in modo davvero improbabile, arrivò la telefonata de «Il Venerdì». Volevano che scrivessi dell’omicidio di Luca Varani. A quel punto mi sono arreso. Vita ribaltata e libro precedente cestinato.
Per cui sì, per rispondere infine alla sua domanda, sono forse le storie che mi vengono a cercare, solo che non lo fanno con gentilezza: mi sfondano la porta di casa, rivoluzionano la mia vita e io posso solo provare a tenergli testa.
Per quale motivo, tra i tanti casi di cronaca nera, l’omicidio di Luca Varani l’ha colpita in maniera così viscerale?
Perché anche io sono stato un ragazzo. Mi ha colpito il modo in cui sia Marco Prato che Manuel Foffo faticassero persino a comprendere ciò di cui erano responsabili. All’inizio, l’omicidio Varani era stato accostato da qualche commentatore al massacro del Circeo per via delle diverse classi sociali cui appartenevano vittima e carnefici. Mentre no, siamo in una dimensione diversa. In Izzo e nei suoi complici c’era una volontà del male ben precisa, ben padroneggiata, pianificata. Foffo e Prato sembrano al contrario un monumento all’impotenza, e alla tristezza, alla depressione, al crollo di autostima. Senza che questo tolga nulla alle loro colpe e alla loro responsabilità, è come se Foffo e Prato agissero schiacciati da una forza soverchiante e che loro stessi hanno evocato, sono degli apprendisti stregoni, mettono in moto una catena di eventi che non riescono a fermare, in loro per primi. Sono quasi degli assassini a loro insaputa, e questo non riduce la loro colpa (anzi: forse li rende più colpevoli), ma è sconvolgente per come in loro le categorie di responsabilità, libero arbitrio, assunzione di colpa siano labili, provvisorie, cangianti, evanescenti. A questo si aggiunge la difficoltà estrema di vedere l’altro, di distogliere l’attenzione da se stessi per riconoscere nel prossimo un essere umano. Sono problemi che oggi credo affliggano molti di noi, ma che in Foffo e Prato (per quanto siano due personalità molto diverse, con i ruoli di incubo e succubo intercambiabili a seconda della situazione, e del modo in cui opera tra loro il contagio psichico) esplodono in maniera esasperata.
Manuel Foffo, uno dei due assassini, sotto interrogatorio non ricorda nulla del delitto. La sua memoria si compone di ampie zone d’ombra, come se il demonio avesse preso possesso della sua mente – in effetti, in questa vicenda, il male è una presenza tangibile. Di certo non è stregoneria. Ma allora cos’è?
Nelle sue tante etimologie e nei suoi tanti nomi, il demonio è anche “colui che divide”. Divide gli uomini dagli altri uomini. Il problema è che l’identità si costruisce solo attraverso l’altro. Guardandosi a uno specchio è impossibile capire chi si è. “Chi sono?” sembrano domandare infatti continuamente Foffo e Prato ai loro stessi accusatori. “Perché ho fatto quello che ho fatto?”, “Che cosa mi è successo?”. Viviamo all’epoca dell’i-Tutto: i-Phone, i-Life, i-World. Il che è evidentemente un controsenso. La conoscenza si esperisce come dicevo solo attraverso l’altro. L’amore non può essere solo amor di sé. Ecco cosa c’è di diabolico in questa vicenda: una gelida, colpevole solitudine.
D’altro canto Marco Prato, il secondo assassino, durante l’interrogatorio ha un tono «morbido e assertivo». Più che in una confessione, sembra si spenda in un’operazione di marketing di se stesso. Conosciamo così il suo narcisismo.
È uno dei problemi da cui è afflitto Marco. A suo dire, tutto il suo narcisismo, il suo istrionismo, il suo camaleontismo, l’essere perennemente sopra le righe, la seduzione che diventa in lui tendenza manipolativa, nascono per colmare dei grandi vuoti affettivi. Questa almeno è la spiegazione di Marco, che per se stesso pretende di avere sempre l’ultima parola. In questa volontà di controllo (persino nella sua tragica fine) c’è qualcosa di disperante e di molto doloroso.
In entrambi i casi la consapevolezza di ciò che è accaduto è del tutto assente. È qui che il concetto di colpa comincia a sgretolarsi?
Sì, si sgretola la loro capacità di riconoscersi addosso una colpa, nel sentirsi davvero, profondamente, colpevoli. Sia Prato che Foffo parlano continuamente di sé e pochissimo di Luca Varani. Questa cosa mi ha colpito. È pure vero che tutti noi oggi fatichiamo a riconoscerci davvero colpevoli di qualcosa. Quando mai ammettiamo una nostra malefatta? Viviamo del resto in un mondo che non perdona questo tipo di confessione, che sembra chiedere un prezzo sociale altissimo a chi ammette di aver sbagliato, dunque siamo scoraggiati dal maneggiare le classiche categorie su cui si è edificato l’uomo moderno. La cui evanescenza infatti spaventa.
I due aderiscono a profili psichici che attraverso la ricerca dei guai puntano a riempire i propri vuoti: a Foffo manca la stima paterna, agisce per liberarsi dell’etichetta del fallito; a Prato manca l’amore materno, si comporta in modo tale da attirare l’attenzione di chiunque. Entrambi lamentano un mancato riconoscimento da parte di una persona cara. In un tale stato di cose, quanto margine c’è per il libero arbitrio?
Niente nella loro percezione, tutto nella realtà. C’è un margine totale per il libero arbitrio. Solo che Prato e Foffo non riescono a riconoscerselo, preferiscono non farlo pur di non dare a se stessi la colpa dei propri fallimenti o almeno di una parte dei propri dispiaceri e delle proprie sofferenze. Sono colpevoli, ma in un modo diverso rispetto a quanto potevano esserlo gli assassini di un romanzo di Dostoevskij o di Manzoni.
Il testo tiene molto al punto di vista degli assassini, come a dire: studiamoli, al loro posto potremmo esserci noi. Quanto è stato illuminante, in questo senso, intrattenere un carteggio con uno dei colpevoli?
Dal carteggio con Manuel Foffo ho ricevuto più che altro conferme del quadro che mi si andava spalancando man mano che ricostruivo i fatti.
Il divario tra classi sociali, la cocaina, l’alcol, il sesso sono solo alcuni dei temi di cui la vicenda è impregnata. Eppure più che avvicinare alla verità gettano fumo negli occhi. Perché?
Senza tutta quella cocaina Prato e Foffo non avrebbero commesso l’omicidio. Eppure se bastasse pippare così tanto per uccidere, a Roma ci sarebbero migliaia di morti al giorno, e così a Milano, Torino, Genova, Napoli, Bari, Palermo, Verona, Firenze, visto il consumo di alcaloidi in queste città. La mancata accettazione del proprio orientamento sessuale può generare a propria volta frustrazione e violenza, così come frustrazione e violenza possono essere generate dall’ingiustizia sociale. Ma anche qui, visto il livello di disagio, ci sarebbero migliaia di morti ammazzati al giorno. Tutti questi fattori svolgono allora un ruolo nell’omicidio di Luca Varani ma c’è, evidentemente, anche dell’altro. Io è quell’altro che provo a indagare.
Sullo sfondo c’è una Roma che quando piove vomita fango. Che distrugge sistematicamente ogni tentativo di bikesharing. Che è assediata dai sorci, dal flagello dei gabbiani. La sua cifra è la violenza psichica. Quanto siamo lontani dall’ambiente pugliese cui siamo soliti associare la sua penna?
Siamo molto lontani. La Puglia è una terra di confine. Roma è il centro della paralisi. Ma è proprio per questo che merita di essere interrogata.
In un’intervista a «il Libraio» in occasione della pubblicazione di La ferocia, disse di aver scritto il romanzo come fosse una questione di vita o di morte. Potrebbe dire la stessa cosa per La città dei vivi?
Per La città dei vivi mi sono messo in gioco in un modo che non avrei immaginato. Ho trascorso quattro anni ad andarmene in giro per Roma raccogliendo materiale, incontrando persone di tutti i tipi, ficcandomi in posti in cui non sarei andato, facendo domande che non avrei mai avuto il coraggio di fare. È come avere soggiornato per moltissimo tempo nel fondo di un oceano. Ora ne sono fuori, posso tornare a guardare le cose con gli occhi di prima.
Naturalmente non è vero. Non si ritorna mai quelli di prima.
Intervista a cura di Giulia Laino