di Jorges Luis Borges
Adelphi, ottobre 2020
traduzione di Gianni Guadalupi
pp. 128
€ 10 (cartaceo)
€ 4,99 (ebook)
Quando si tratta di Jorge Luis Borges, si ha sempre timore di rimanere intrappolati nella ragnatela dello scetticismo, dei temi decisamente intellettuali e dello stile provocatorio e provocatoriamente borgesiano, soprattutto quando una delle tematiche da affrontare è l’eternità, tanto cara allo scrittore.
Nel 1936 nella biblioteca di un quartiere di Buenos Aires, Borges scrive Storia dell'eternità, una raccolta di saggi – più due note – ripubblicati recentemente da Adelphi, di cui egli stesso afferma: «È un libro interessante per gli argomenti trattati più che per quanto io dico a proposito di essi» (p. 125). Si tratta senza dubbio di un titolo fascinoso e allo stesso tempo misterioso, poiché nessuno si aspetta che l’eternità abbia una storia. Tuttavia, per chi conosce l’argentino sa che amava inserire elementi contraddittori per esprimere una nozione paradossale e ossimorica. Pertanto, il primo saggio che il lettore sta per affrontare o ha già affrontato riguarda la storia del concetto di eternità, e gli illustri pensatori invitati alla chiarificazione di una così complessa tematica sono Platone e Plotino.
Ma cos’è l’eternità? Una meccanica aggregazione del passato, del presente e del futuro o la simultaneità di questi diversi tempi? E cos’è il tempo?
«Il tempo è per noi un problema, un inquietante ed esigente problema, forse il più vitale della metafisica; l’eternità, un gioco o una faticosa speranza» (p. 13), scrive Borges con un certo realismo. Il tempo propone diverse difficoltà se si pensa al periodo di ogni individuo, ogni cultura e ogni realtà ultima e certa. Le nostre sensazioni, impressioni, sentimenti, dolori e sofferenze sono momentanee o sono destinate a durare in eterno, moltiplicate negli specchi – plotinici – del tempo?
Si tratta di interrogativi archetipici a cui molti hanno provato a rispondere nell’antichità. Ma oggi chi parla più di eternità? I nostri slogan si risolvono in “tutto passerà”, “tutto andrà per il meglio”, “tutto finirà presto”: un tutto fatto di cambiamenti e finali che non ammettono l’eterno, forse per timore di dover affrontare per sempre situazioni sgradevoli. Eppure, Platone ci ammonirebbe con il suo dialogo in Timeo affermando: «In capo a ciascun anno platonico rinasceranno gli stessi individui, e avranno lo stesso destino» (p.76), in altre parole, dovremmo essere prigionieri di una serie perpetua di storie universali identiche, e annullare le nostre agognate giornate della memoria poiché inutili all'annientamento della ciclicità dell’Eterno ritorno. Un brividìo sopravviene per le nostre membra – per fortuna – mortali.
Navigando in acque più sicure, Borges ci conduce nel bizzarro mondo letterario delle Kenningar, formule enigmatiche della poesia islandese, usate in abbondanza nel conosciutissimo poema epico anglosassone Beowulf. La questione rilevante, di cui si occupa lo scrittore, è la traduzione delle kenning nelle lingue d’arrivo, estranee alla sonorità e al ritmo di quelle nordeuropee. Per una dimostrazione tangibile, l’autore – partendo da Edda Prosaica, trattato di poetica norrena di Snorri Sturluson (1220) – ha stilato un elenco di curiose ed esilaranti kenningar. Di seguito alcuni esempi: "gamba della spalla" che non è altro che il semplice braccio; o "pattino del vichingo" che non riesce ad esprimere appieno la maestosità di una nave. «Le kenningar ci dettano questa sorpresa, ci estraniano dal mondo» (p. 54), come quello orientale delle Mille e una notte, titolo di una celebre raccolta anonima di novelle in lingua araba. Lo scopo dello scrittore è ricercare il traduttore più fedele e onesto dei racconti delle mille e uno notti, dall’archeologo Antoine Galland al capitano del sotterfugio puritano Richard Francis Burton, dall’orientalista Edward Lane, il quale «destinava la sua opera al tavolino del salotto, centro della lettura senza rischi e dell’onesta conservazione (p. 85)», fino alla traduzione letterale e integrale del dottor Joseph Charles Mardrus. Borges giura che l’unico intento del suo studio non è demolire l’ammirazione da parte di critici e lettori, ma di documentare infedeltà creative e felici. Che stia strizzando l’occhio all’arte dell’insulto?
Olga Brandonisio
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