Il miracolo della pittura
illustrazioni di Giovanni Scarduelli
testi di Francesco Matteuzzi
Centauria, 2020
pp. 128
€ 19,90 (cartaceo)
L’uomo di mezza età che ci osserva dalla copertina della sua biografia illustrata, esito della collaborazione di Francesco Matteuzzi e Giovanni Scarduelli, è un Mark Rothko all’apice della maturità artistica, presentato nel sembiante e nell’atteggiamento con cui abbiamo imparato a riconoscerlo sui manuali scolastici, nei volumi monografici e nei documentari televisivi: ampia stempiatura, grandi occhiali da vista, giacca e cravatta d’ordinanza, sigaretta accesa tra le dita. Un’icona, insomma: una delle tante consegnate ai posteri dal Novecento artistico internazionale. Un’icona, tuttavia, che rifugge subito la fissità del santino in virtù della citazione stilistica che ne completa efficacemente il ritratto: perché che cosa altro è la cesura che divide la silhouette all’altezza del punto vita, inscrivendone le metà all’interno di due rettangoli dai contorni incerti, se non un palese riferimento alla produzione più famosa del pittore, quella destinata a consacrarlo? Un ammiccamento ai lettori più edotti, certo, ma anche un efficace escamotage simbolico per annunciare che ciò che si andrà a leggere è soprattutto la storia di un uomo scisso, di un esule appartenente a una famiglia di origine russa ed ebrea (Marcus Rothhowitz all’anagrafe, nato il 25 settembre del 1903 a Daugavpils) che trovò se stesso negli Stati Uniti come il più classico self made man, e che dopo anni di studi (non sempre mirati) rispose al richiamo della pittura con sollievo e tormento. Appena pubblicata da Centauria, questa graphic biography è un omaggio a un artista evidentemente consacrato dalla critica, dal pubblico e dal mercato, ma che ancora oggi, a dispetto della notorietà planetaria, pretende la fruizione diretta del proprio lavoro perché ogni spettatore possa dirsi partecipe di un processo emotivo, e quasi epifanico, di comprensione.
Suddivisa in tre capitoli – La forma e lo spazio, La figura e l’essenza, L’arte e la vita – la biografia di Rothko nella versione di Matteuzzi e Scarduelli (quest’ultimo già autore di quella su Edward Hopper pubblicata lo scorso anno all’interno della stessa fortunata collana della casa editrice) sfrutta un doppio espediente narrativo: da una parte la ricerca dell’andamento circolare, dall’altra l’affidamento dell’incipit, dell’explicit e dei raccordi tra le parti proprio alla viva voce dell’artista ormai adulto ma a tu per tu con il sé bambino (una versione in miniatura, è il caso di dirlo, a dir poco malmostosa, irrispettosa e ostile all'idea di vivere e invecchiare nel modo che gli viene prospettato). Ecco dunque che l’esordio e il finale possono ricongiungersi a tutta pagina nelle campiture di colore espanso tipiche del pittore negli anni della maturità, mentre le due versioni del biografato – il piccolo Marcus e l’ormai cresciuto Mark – dialogano tra loro ricordando le dinamiche alterne del rapporto padre/figlio più che i due momenti cronologici opposti di una stessa parabola esistenziale. All’interno delle tranches narrative, invece, la storia del protagonista è scandita con una suddivisione delle tavole ordinata e regolare, che in determinate occasioni, come nella già citata copertina, non manca di rimandare proprio alle sue celebri forme rettangolari. Così accade, per esempio, nel momento in cui il pittore, a trentacinque anni dal suo arrivo nel “nuovo mondo”, si risolve a compilare i moduli per la richiesta della cittadinanza americana, accettando razionalmente l’uccisione simbolica di quella figura genitoriale che lo aveva abbandonato troppo precocemente al suo tormentato destino: «Sento mio padre che muore una seconda volta», si legge in didascalia, «Ma almeno adesso lo so», mentre una visione ben marcata dall’alto mostra un Rothko consapevole ma scisso in più bande orizzontali, chino sul foglio bianco di una nuova identità.
Ad ogni modo, questo non è che uno degli espedienti espressivi presenti nel libro per restituire in immagini il pathos di un’esistenza in cui la portata eclatante del proprio contributo artistico si sovrappose a una complessità umana fatta di traumi irrisolti, sensibilità estrema e sensualità auto-indulgente (cibo, alcol, fumo), e in cui le esaltazioni per il successo (seppur tardivo) si alternarono sempre a depressioni cagionate dalla consapevolezza di non comprendere mai il profondo significato della realtà e di non avere altro che pennelli, tele e colori per esprimere l’ansia di questa ricerca perenne. Per questo il protagonista può nuotare in apnea nelle profondità di un lago verde mentre le bolle del suo respiro si compattano sul pelo dell’acqua dando vita a un rettangolo bianco; per questo può domandarsi quanti siano i toni del nero e precipitarci dentro poco dopo come nella profezia di un drappo funebre sventolato davanti ai suoi occhi; per questo può congedarsi da chi legge mentre dipinge di un rosso altrettanto profetico un’enorme superficie bianca come se fosse «l’unica cosa possibile», «l’unica cosa importante», «come se al mondo non ci fosse altro», «come se fosse l’unica cosa dotata di senso», ovvero l’unica in grado di tenerlo in vita… a ridosso di un’imminente morte volontaria.
Scrivono Matteuzzi e Scarduelli nelle loro dichiarazioni in coda al volume riguardanti il loro approccio a Rothko in previsione del lavoro a quattro mani:
«in questo libro avremmo sbagliato a concentrarci sulla sua grandezza visiva (e non ci saremmo neanche riusciti) e quindi ve lo restituiamo come autore, collega per certi versi, ma soprattutto come uomo, fatto di carne, pensieri e sangue».
E non c’è che dire: le cose sono andate proprio così. Non solo perché la citazione esplicita e diretta delle opere del pittore è un caso più unico che raro all’interno delle tavole (che pure ne ripercorrono il cursus honorum senza tralasciarne alcuna tappa saliente), ma perché l’essenza dell’artista e dell’essere umano è sempre resa con più profitto e pregnanza nelle citazioni indirette della gamma cromatica ricorrente, nelle allusioni in incognito allo stile (cubetti di ghiaccio che si sciolgono in un bicchiere di liquore perdendo il caratteristico rigore geometrico, per esempio) e nella raffigurazione del tipico gesto ampio, direttamente proporzionale alla larghezza dei pennelli e all’ampiezza delle braccia, che arriva quasi a cancellare per intero l’inquadratura suggerendo al contempo il punto di vista impossibile del quadro che osservi il suo artefice all’opera. Ed è proprio questa impostazione a rendere valido e lodevole il lavoro degli autori, il cui omaggio, lungi dall’essere didascalico o saggistico, sa essere specificamente biografico senza divenire morboso (al punto che si preferisce glissare assai poeticamente sul tragico epilogo della vicenda, ovvero il suicidio compiuto la mattina del 25 febbraio del 1970). Ciò che resta, in conclusione, è lo struggimento per un corpus pittorico che non ha ancora finito di suscitare pensieri ed emozioni, e che pretende l'esperienza dal vivo per una reciproca messa a nudo dei partecipanti al processo di agnizione. Resta dunque, e come da sottotitolo, Il miracolo della pittura, evento terreno, fisico e concreto che proprio in Rothko trovò una delle sue manifestazioni al contempo più incorporee, immateriali e spirituali.
Cecilia Mariani
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