Mondadori, 2020
pp. 344
€ 20,00 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
La vita è un continuo appello, che ti chiama a essere presente, a
te stesso e al mondo. Quello che ti porti dietro sono le lettere del tuo nome,
che è indice di identità, di appartenenza. Solo quando qualcuno accetta di
farsi carico di questo nome, e quindi della tua intera esistenza, il buio che
avvolge il quotidiano si dirada in virtù di un amore che salva.
Nel suo nuovo romanzo, Alessandro D’Avenia vuole ricordarci
proprio questo: che siamo chiamati alla pienezza,
siamo chiamati alla bellezza, che non
è altro se non “la quantità di vita che
riusciamo a realizzare” (p. 291). Tutto ciò è ben chiaro al protagonista,
Omero Romeo, professore di scienze alle scuole superiori. Da cinque anni, per
quell’ironia tragica che fa riecheggiare nel nome un destino, ha perso la vista
come l’antico aedo suo omonimo, e l’oscurità piombata sulle sue giornate ha
rischiato di travolgere tutto, di farlo sprofondare in un abisso senza fondo.
Sulla sua pelle, però, imparando a guardarsi con gli occhi di chi lo ama,
l’uomo ha raggiunto una nuova consapevolezza e la vuole ora riportare nelle
aule. Lo fa per sentirsi di nuovo vivo
e perché sa che questo è possibile
soltanto all’insegna della costruzione e del mantenimento di relazioni
generative. Per questo non tentenna quando gli viene affidata la classe che
nessuno vuole, quella dei disastrati, degli infelici, degli sventurati. Quella
dei ripetenti, dei bellicosi, dei più fragili. Proprio per costoro, da tempo
inascoltati, opportunamente ghettizzati, e tendenzialmente dimenticati se non
nel bagno di sangue dei consigli di classe, infatti, è tanto più necessaria la
novità introdotta dall’Appello. Per poterli vedere attraverso i sensi che gli
sono rimasti, il professor Romeo chiede loro di alzarsi e farsi carico del
proprio essere e della propria storia davanti agli altri, offrendo poi il volto
alle sue mani delicate, per completare il ritratto laddove non arrivano le
parole.
In questa nuova prova letteraria di D’Avenia, molto attesa dal
pubblico, l’io narrante è ironico, sagace, molto colto, come rivelano le
molteplici citazioni semi-nascoste che strizzano l’occhio al lettore. La fisica
diventa per Romeo un modo di interpellare il reale: “la materia è sempre e solo la vita, e le scienze sono un modo per
capire qualcosa della misteriosa sostanza di cui è fatta. Il metodo scientifico
ci offre istruzioni per la vita: prestare attenzione, stupirsi, raccontarla”
(p. 51). I buchi neri offrono allora una via per riflettere su quel gorgo
oscuro, denso, che ci portiamo dentro e che rischia di risucchiarci; la teoria
delle stringhe si presta a descrivere la misteriosa sincronia che si crea tra
tutto ciò che è al mondo e del mondo...
È importante che il lettore sappia, prima di cominciare, che quello di D’Avenia non è un romanzo puro.
La dimensione della riflessione
esistenziale (quella splendidamente condotta nella rubrica “Ultimo Banco”
del Corriere, che i miei studenti mi
accusano di saccheggiare per ogni prova scritta di Tipologia B) in alcuni passi prevale sulla trama.
Questo serve, del resto, a illuminare la vicenda stessa, a chiarire non solo l’importanza
del nome per la determinazione individuale, ma anche quella di rispondere alla
chiamata, di dichiarare a gran voce la
propria totale adesione al reale. Ho usato non a caso il verbo “illuminare”:
perché il motivo della luce attraversa l’intera opera, nella sua opposizione al
buio che è capace di dissolvere, di annientare. Luce è la capacità di guardare
davvero (e questo, ci ricorda l’autore, lo può fare anche chi non vede con gli
occhi, ma attraverso anima e coscienza), luce è ciò che strappa alle tenebre i
“diseredati” della terra (o gli ultimi della scuola). Lo fa richiamandoli a
loro stessi, riconoscendoli uno per uno nella loro propria ricchezza. E questo
– è evidente a ogni insegnante – è lo strumento per accedere all’individuo, per
rendere efficace anche la materia che si cerca di trasmettere. Senza questo, la
chimica resta un insieme di formule, la storia una sequela di date, il latino
una lingua morta: “dare un nome proprio e
dare alla luce sono la stessa cosa. Per riuscire a insegnare devo concentrarmi
sulla presenza dei ragazzi e non sulle mie aspettative, devo lasciare che siano
loro a venire alla luce e non io a illuminarli” (p. 37). Proprio perché ciò
accada l’appello non può più essere quello tradizionale, rapido, una formalità
prima di iniziare la lezione, ma deve diventare una chiamata vera e piena, una convocazione che si fa vocazione
per i dieci ragazzi che compongono la classe dei falliti, che per la prima
volta provano a enunciare una propria verità, a mostrarsi a chi, pur senza
vederli, riesce a riconoscerli uno a uno.
Il romanzo offre quindi una riflessione sulle maschere che ci
incolliamo al viso ogni giorno, al punto tale da dimenticare quel che c’è
sotto: “noi sappiamo modellare la faccia
sulle menzogne che ci raccontiamo, prima a noi e poi agli altri, aggiungiamo
ogni giorno uno strato di trucco e poi non sappiamo più che faccia abbiamo o
semplicemente non la troviamo più sotto tanti strati di menzogne” (p. 45).
Nel momento in cui le maschere vengono calate, ecco che se ne rovescia fuori tutto ciò di cui è composta l’adolescenza:
intensità, slancio, passione, dolore, paura, insicurezza, rabbia, solitudine,
innocenza, voglia di divorare il mondo.
Per disciplinare questo magma emotivo, è fondamentale innanzitutto
aprirsi silenzio, che deve essere prima accettato e poi fatto fiorire, perché
dal silenzio scaturisce la consapevolezza, quindi l’amore, che è prova della
vera maturità. È lì che il maestro deve accompagnare per mano i suoi allievi:
non già a un esame finale che troppe volte si risolve in un mero dispiegamento
di contenuti replicati senza una rielaborazione critica, ma a un’assunzione di
responsabilità in un percorso di formazione vissuto appieno. Il testo dimostra
attraverso l’interazione dei personaggi quello che ogni insegnante in realtà
già sa: che se non c’è relazione nel rapporto educativo, “tutto il resto è puro addestramento che dura poco e annoia” (p.
128).
Quello di D’Avenia non è un romanzo verosimile, è un romanzo fatto per suggestionare.
Anche per questo la forma non è quella canonica: l’intreccio emerge da forme
testuali diverse (la narrazione in prima persona da parte di Omero; le parole
dei ragazzi che rispondono all’appello, ognuno con la propria voce, il proprio
stile espressivo; le pagine del diario del professore, in cui si rivolge di
volta in volta a uno degli studenti, permettendoci al contempo un accesso più
profondo al suo passato e alla sua verità, a un quotidiano percepito attraverso
sensi diversi dalla vista che utilizziamo abitualmente). Questa articolazione,
invece che disgregare il romanzo, gli conferisce nuova coesione, andando
tramite le diverse prospettive a creare il quadro complesso di un poliedro con
molte facce.
Si sollevano in questo modo gli interrogativi fondamentali di ogni
itinerario di crescita, e nel prenderli di petto, nello scavare alla ricerca di
risposte, si creano passi di rara potenza, come quando Caterina parla di Dio, o
i suoi compagni affrontano le difficoltà dell’essere figli.
Al centro delle questioni irrisolte dei dieci ragazzi con cui il professore si
confronta, si nascondono infatti spesso problemi famigliari. È d’altronde nel grembo della famiglia che si inizia a costruire la propria identità,
a definire il proprio carattere e il proprio rapporto col reale. E in quel
contesto, che dovrebbe essere protettivo e invece tante volte non lo è, si
generano crepe e disagi profondi. Al contempo, però, proprio nell’essere
pienamente figli si nasconde la forza per accogliere l’amore e donarlo a
propria volta.
La qualità della relazione tra i genitori è la vita interiore di un ragazzo. Non facciamo altro che proiettare sulla realtà l’amore o l’odio che i nostri genitori si sono scambiati, la speranza o il cinismo che il loro amore ha creato, i progetti, le promesse, le cadute e le macerie che la loro relazione ha prodotto negli anni. (p. 91)
Mentre lo osserviamo dilungarsi in ampie digressioni di astrofisica,
sfidare il preside o il collegio docenti, mettere in crisi politica, società e
burocrazia (tutto quell’insieme che lui definisce “mondo a rovescio”), ci
rendiamo conto che Omero non è accomodante, non è “simpatico”, come del resto
non lo è quasi mai chi si fa portatore
di un messaggio rivoluzionario, chi prova attivamente a cambiare le cose.
Attraverso di lui, D’Avenia conduce una
riflessione profonda, dura, e forse necessaria, sul mondo della scuola, che
non è fatto per addestrare, o per riversare conoscenze, ma per educare, far
crescere, legare i contenuti ai valori fondanti per la crescita personale e il
vivere civile. Quello elaborato dai dieci alunni della classe è a tutti gli
effetti un decalogo, un manifesto per punti che si fa promotore di un’idea
precisa di scuola, di vita, di relazione salutare, se non salvifica. Si vuole
difendere (e diffondere) un “umanesimo carnale”, che pone al centro
le persone, non le teorie o i saperi, senza voler affatto mettere da parte
questi ultimi, ma rendendoli parte integrante di un processo per la formazione
globale del soggetto. Perché “la verità o
è di carne o è un’ideologia” (p. 226).
Quello di D’Avenia è un testo che va discusso e problematizzato,
non può essere semplicemente letto. Non si può ridurlo alla sua sola dimensione
narrativa per non fargli il peggiore dei torti. L’appello si fa manifesto politico, idealistico, della scuola del
futuro. E ciascuno, come i ragazzi di Omero, è chiamato a dire la sua.
Carolina Pernigo
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