La lingua ritrovata. Storia di mio padre e del suo Alzheimer
di Alberto Bertoni
Marietti Editore, novembre 2020
Collana digitale: iRèfoli
pp. 40
€ 2,99 (ebook)
La riflessione riguardo il concetto di identità è una questione estremamente complessa. Si lega a categorie sociali, etnografiche, antropologiche, geografiche e politiche che si riflettono nell’appartenenza culturale, nella provenienza etnica, nella sessualità, nell’orientamento politico: la lista potrebbe, potenzialmente, non finire mai. Ma tra tutti questi fattori, la lingua che parliamo è, forse, uno degli aspetti che più ci caratterizzano dal momento in cui veniamo al mondo. E le risoluzioni linguistiche sono tanto diverse quanto diverse sono le identità che, con il tempo, vanno creandosi. Monolinguismo, bilinguismo, plurilinguismo, poliglottismo. Lingua ufficiale, lingua standard, lingua straniera. Dialetto, parlate locali, variazioni regionali. Slang. L’ipotesi di Sapir-Whorf, conosciuta anche come “ipotesi della relatività linguistica”, afferma, in estrema sintesi, che noi siamo quello che parliamo e che il mondo che vediamo dipende dalla lingua che struttura il nostro pensiero.
Spesso però queste lingue sono in conflitto tra di loro, lottano per il primato e alcune vogliono soffocare le altre. In Italia lo sappiamo benissimo: l’italiano standard fa ogni giorno a braccio di ferro con i vari dialetti. In Libera nos a Malo, Luigi Meneghello riflette attentamente su questo conflitto linguistico nel nostro paese e scrive: «Ci sono due strati nella personalità di un uomo: sopra, le ferite superficiali, in italiano, in francese, in latino; sotto, le ferite antiche che rimarginandosi hanno fatto queste croste delle parole in dialetto» (p. 36). Alberto Bertoni ha sentito queste doppie ferite sulla propria pelle, e ce le racconta nel suo nuovo memoir, La lingua ritrovata. Storia di mio padre e del suo Alzheimer. Il protagonista della narrazione è il padre, Gilberto Bertoni, detto Gil; o meglio, la memoria di suo padre, della sua infanzia e di un’Italia che ormai non esiste più. La lingua ritrovata torna indietro nel tempo per esplorare un passato famigliare non ancora del tutto elaborato: la vita di coppia dei genitori, antitetici come il Sole e la Luna; le difficoltà in famiglia; l'infanzia segnata dalla passione sportiva condivisa con il padre; il divieto imposto dalla madre di parlare in dialetto modenese e il conseguente dialogo tra padre e figlio che si sviluppa unicamente in italiano; la passione per la letteratura e la relativa indifferenza dei genitori; la carriera da professore all’Università di Bologna e la ricca produzione poetica.
Poi a Gil, viene diagnosticato l'Alzheimer e tutto cambia per sempre. Pezzo dopo pezzo, il padre dimentica il figlio, che ogni giorno diventa una persona diversa, un amico di vecchia data, un parente lontano, un vicino di casa. Uno sconosciuto. Curiosamente, la perdita della memoria viene segnata da un evento linguistico che il figlio non si aspetta: Gil inizia a parlare in dialetto con Alberto. La lingua tanto temuta in casa e ferocemente repressa dalla madre, educata nella scuola fascista dove le parlate locali erano bandite, ritorna in un contesto totalmente inaspettato: quello della malattia. Allora Alberto Bertoni inizia a conoscere, a leggere e a studiare quella “lingua paterna” che, come un orologio che fa girare le lancette in senso antiorario, ritorna ora che Gil ha perso memoria di tutto e di tutti.
Per Alberto, sembra iniziare un lutto ancora prima della morte del padre. Ma ad un tratto, ecco la speranza offerta dalla poesia. L’autore inizia a comporre versi in quella lingua del padre che ora è diventata l’unico mezzo di comunicazione tra i due. In questo modo, Bertoni inaugura il suo ventennio di produzione poetica, suggellato nel 2008 dalla pubblicazione della raccolta Ricordi di Alzheimer. Scrivere poesie usando il dialetto diventa quel laccio che tiene vivo il rapporto con il padre, sia durante la malattia, sia dopo la sua morte:
È noto che l’Alzheimer tende a distruggere la vita interiore, biologica, economica non solo dei pazienti ma anche dei loro familiari: io non ho fatto eccezione, naturalmente, ma non è questo (e soprattutto non sono io) l’elemento centrale e unificante delle poesie che ho dedicato a mio padre nei vent’anni successivi, quanto piuttosto un processo inarrestabile e straniante di conoscenza della sua personalità e della sua storia, durante le passeggiate cui mi hanno costretto le disperate fughe di ogni dopopranzo verso una casa d’infanzia ormai inesistente, prima che, nell’amministrazione quotidiana della sua malattia, mi si affiancassero altre persone e il risultato divenisse – se possibile – ancora più umiliante. (p. 17)
La lingua ritrovata. Storia di mio padre e del suo Alzheimer è un libro che esplora le potenzialità di una lingua da sempre negata ma che, attraverso la letteratura e la poesia, tenta di recuperare i legami tra padre e figlio nel toccante contesto della malattia. Un piccolo e intimo testo ma che ha la capacità di fuoriuscire dall’esperienza privata e personale dell’autore e che ci insegna come l’arte abbia delle capacità terapeutiche per affrontare, nella vita di tutti i giorni, il dolore, la malattia e la morte.
[…]e oggi siamo noi stessipatrioti e padroni di questealzheimeriane sortiRoccaforti dai tetti sfondati daidiroccati androni (p. 38)
Nicola Biasio
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