La natura non conosce frontiere. Così un bosco può unire Trieste a Sarajevo: "Il bosco del confine" di Federica Manzon
Il bosco del confine
di Federica Manzon
Aboca, 2020
pp. 173
€ 14,00 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
Possiamo sentire di appartenere a un luogo, a una città, anche se non abbiamo con essa legami di sangue o di nascita? Anche se non ne parliamo la lingua? Anche se non conosciamo i volti che incontriamo? Sì, la risposta è indubbiamente sì. Capita a tutti, almeno una volta nella vita, di sentirsi a casa non appena si arriva in una città completamente nuova, dove non siamo mai stati in precedenza, eppure di sentire di conoscerla, di percepirla sotto pelle come cosa propria. Un legame magico che s'instaura d'improvviso. A me è capitato, guarda caso con la medesima città nella quale Schatzi, la protagonista di questo romanzo, si riconosce immediatamente: Sarajevo.
Ma ci arriviamo per gradi. Questo è soltanto uno dei temi profondi che costituiscono l'ossatura di questo romanzo breve, ma intenso e profondo. La molla principale che ha portato l'autrice, Federica Manzon, ad aderire alla proposta di Aboca di scrivere un libro dedicato a un albero, è stato il bosco, o meglio il camminare per i boschi. Un'attività che (e chi la pratica lo sa bene) desidera il silenzio, facilita la riflessione, induce all'osservazione.
Schatzi è una ragazzina, abita a Trieste (altra città simbolo di confine, di passaggio, di frattura e collegamento) e da sempre va a camminare per i boschi con il padre, di origini slave, uno spirito libero, internazionalista, pacifista, colto, amante delle lingue che abitua i figli, Schatzi e il fratello, a pensare liberamente, senza confini. Ed è questa un'altra delle tematiche principali del romanzo: il confine, la chiusura, la barriera.
Nel bosco non esistono confini, aveva detto mio padre. Lo ripeteva spesso come una formula da mandare a memoria, rivelatrice di una qualche verità che avremmo capito solo molto tempo dopo, una volta diventati adulti.
La natura non mette barriere, non erige muri, non alza steccati e non si cura delle divisioni che invece l'uomo coltiva, purtroppo, assai bene. Come dimostrano quei soldati barbuti che Schatzi scorge un giorno nel bosco. Fin da subito si percepisce quasi un senso di irrequietudine che aspetta soltanto lo scorrere del tempo per concretizzarsi.
Il racconto prende una svolta immediata quando il padre di Schatzi le fa trovare, come regalo per il suo sedicesimo compleanno, due biglietti per le Olimpiadi invernali di Sarajevo. E' il 1984 ed è la prima volta che il mondo intero si accorge di questa città bellissima nascosta in un angolo dei profondi Balcani, meravigliosa, tutta tirata a lucido per presentarsi alle tv delle altre nazioni. E qui accade qualcosa d'importante per la ragazzina, nasce un'amicizia con un ragazzo jugoslavo (allora si diceva ancora così), Luka, che la condurrà sopra i boschi che circondano Sarajevo, là sul monte Trebeviċ, dove era stata costruita la pista da bob più lunga del mondo. Ed ecco che il bosco ritorna, il nodo che unisce i due ragazzi è proprio il bosco che loro attraverseranno scendendo di corsa in una notte innevata.
Altro fotogramma. Sarajevo, 1993. La città, meravigliosa e dolente, è ora un ammasso di macerie. Siamo nel bel mezzo dell'assedio, i cecchini la tengono di mira dai boschi del monte Trebević, la montagna dei Giochi olimpici. I soldati accampati sulle rovine della grande manifestazione sportiva utilizzano la pista da bob per meglio posizionare i fucili. Gli abitanti, facili bersagli, in coda per una sporta di pane o una tanica d'acqua, non possono credere che il mondo intero si sia dimenticato di loro. Solo 9 anni prima la mascotte dei Giochi, il lupo Vutcko, divertiva i bambini dagli schermi di tutte le tv... e ora? Per due lunghissimi anni il mondo farà finta di non aver mai sentito parlare di Sarajevo, dimenticandosi il grande trampolino da sci, le piste da cui scendevano la nostra Paoletta Magoni e la svizzera Michela Figini o le evoluzioni sulla pista di ghiaccio di Katarina Witt, che fece innamorare tutti. Ancora oggi per i sarajeviti quello fu il febbraio magico. E mai avrebbero immaginato di tornare sulle tv di tutto il mondo scheletrici, affamati, terrorizzati.
Il romanzo segue questo salto straniante con un cambio di prospettiva: ora è Luka a raccontare la città in cui non c'è più niente da mangiare, nella quale ci si scalda bruciando libri, mobili, persino le croci dei cimiteri improvvisati e questi non mancano davvero,... tutto brucia tranne gli alberi del monte Trebević. Quello è il bosco dei cecchini, non appartiene più a Sarajevo, i suoi abitanti non ne percorrono più i sentieri e piano piano impareranno a dimenticarsene. Non è più il bosco che Luka e Schatzi avevano percorso quella notte correndo a perdifiato. Una sensazione che Schatzi desidererà ritrovare tornando a Sarajevo, cercando Luka. E riconoscendo in quella città che aveva cercato di tenere lontana da sé, dalle proprie mappe mentali, una strana appartenenza, un legame indissolubile che la porta a cercare parti di sé, a ritrovare se stessa.
Al di là della bellezza di questo racconto, scritto con un linguaggio empatico, coinvolgente, con un Io narrante che scava nel profondo, sono grata ad Aboca e a Federica Manzon per avermi fatto ritrovare tutta la magia di Sarajevo, una città che sa ammaliare, che irretisce, che spinge a tornare. Non perché sia ricca di monumenti, torri, piazze o tutto quello che ci si può immaginare di trovare in quella che comunemente definiamo una "bella città", bensì grazie a un filo che corre sottopelle, a un fascino dolente e misterioso. Nelle righe di questo romanzo ho ritrovato tutta me stessa e il mio ricordo nostalgico di quella città che ho rivisto per l'ultima volta ormai quasi dieci anni fa. E chi è stato a Sarajevo so che mi capisce. Federica Manzon riesce a restituire tutto questo e anche altro (il valore dell'amicizia, l'insensatezza della guerra, il fascino di una passeggiata nel bosco, il valore del cammino, il legame tra padre e figlia) con parole tremendamente adeguate, senza inutili fronzoli, ma che sanno andare dritte all'essenzialità delle cose e alla profondità del sentimento.