Il senso di una fine
di Julian Barnes
Einaudi, 2014
Traduzione di Susanna Basso
pp. 160
€ 11,00 (cartaceo)
€ 7,99 (ebook)
Confrontarsi con un romanzo uscito da tempo significa fare i
conti non solo con le proprie aspettative, ma anche con le opinioni degli altri
che, col tempo, si sono andate a sedimentare nel nostro inconscio; se il libro
in questione ha anche vinto un Booker Prize, le aspettative salgono
vertiginosamente. Eppure quando mi sono approcciata a Il senso di una fine
di Julian Barnes non mi rendevo nemmeno conto di cosa mi aspettassi, ma, in cuor
mio, sapevo che sarebbe stato un libro… Bello. Mi sbagliavo. Perché Il senso di
una fine di Julian Barnes è il libro più fastidioso che io abbia mai letto, e l’ho
divorato.
La storia si apre in una Londra un po’ vintage, in una
scuola maschile degli anni ‘60 che ci immaginiamo popolata di cravatte e
cartelle di cuoio. Il narratore, Tony, ha quindici anni, e ci racconta dell’adolescenza
sua e di tre suoi compagni di scuola: Alex, Colin, e Adrien. Tutti (tranne uno)
abbastanza ordinari, anche se non lo sanno ancora. Impermeabili alla
liberazione sessuale che preme per esplodere nel mondo esterno alla scuola,
loro disquisiscono di storia e filosofia, portano l’orologio sull’interno del polso
per distinguersi, e ripetono ossessivamente la frase questo è filosoficamente
tautologico godendo ogni volta come solo gli inglesi sanno fare quando
utilizzano parole derivanti dal greco. Il narratore si cala corpo e anima nei
suoi ricordi e tornando ad abitare i panni del Tony quindicenne, lo sentiamo
totalmente a suo agio in quel mondo poco complicato, dove le nozioni di storia
sono ferme sui libri e aspettano che qualcuno arrivi a studiarle e a fare di loro
ciò che si vuole, dove non arrivano donne a interrompere l’uniformità maschile
e a infrangere le proprie concezioni sul sesso, e il futuro aspetta con calma
che tu arrivi da lui.
Il problema è che poi quel futuro ti travolge che tu lo voglia o no, e l’agio del
narratore scompare, dimostrando la sua incapacità di confrontarsi con la
complessità. In tutto il romanzo, gli avvenimenti sono pochissimi: il lettore
farebbe bene a stare all’erta, perché i pochi eventi che riescono a
colpire Tony e a trovare spazio nei suoi ricordi sono tutti importanti, tutti
collegati, e tutti concorrono a creare il finale inaspettato che tiene il
lettore aggrappato con le unghie alla narrazione dei ricordi inconcludenti, imperscrutabili,
e non di rado totalmente falsi, di Tony Webster. Si riesce quasi a sentire un
Barnes che sghignazza, affidando la storia di sua creazione alla voce di un
narratore così incredibilmente concentrato su sé stesso, che non solo non riesce
a perforare le persone che ha conosciuto, lasciandoci a brancolare verso personaggi
potenzialmente interessantissimi come Adrien, Veronica, Margaret, ma che noi,
come Tony, non comprendiamo; ma addirittura siamo affidati a un narratore che,
a distanza di anni, dimentica e modifica i suoi stessi ricordi, e dimostra di
non aver imparato niente, in quanto continua a subordinare le istanze altrui, che
sono coloro che davvero vivono le storie del libro, alle sue percezioni ed
elucubrazioni sulla morte, sul tempo, sull’amore. Disquisizioni in realtà molto
godibili e ben scritte, ma Tony è talmente odioso che non è facile concederglielo.
Insomma, la storia c’è, e il finale tanto atteso arriva. Ma
noi, come Tony, percepiamo solo un accenno di finale. Tutto rimane appeso,
incerto, incompiuto, che è un po’ come Tony ha vissuto la sua vita da adulto, dopo
l’esperienza universitaria che coincide con l’inizio delle cose che lui non
comprende. Se infatti il titolo è un richiamo all’opera di Frank Kermode, Il
senso della fine, che ho recensito qui, e che indagava appunto la conclusione nella letteratura,
qui Barnes vuole invece aprire tutto, lasciare incompiuto quanto più può. Un
finale ci viene dato, d’accordo: ma è interpretabile in così tanti modi
diversi, e il narratore è così inaffidabile, che il finale narratoci da Tony contiene in nuce moltissimi significati possibili. Al punto che c’è chi ha
suggerito che il sense inglese andrebbe in realtà tradotto come “sensazione”,
“percezione”: un richiamo al fatto che Tony ha vissuto la storia sempre tramite
la sua percezione soggettiva, limitante, tramite i suoi inaffidabili ricordi di
sessantenne e la sua scarsa capacità comunicativa di un uomo solo, divorziato,
senza grandi legami familiari, che si diverte litigando con compagnie
assicurative tramite email. A lui Julian Barnes ci affida, consapevolmente e
chissà, anche con diletto. E noi, da bravi lettori, possiamo solo accettare che Barnes, anzi, che Tony ci porti dove vuole. Il
risultato? Un romanzo splendido e odioso insieme, che si finisce per dispetto e che ti rimane dentro per giorni. Provare per credere.
Marta Olivi
Qui il #PilloledAutore di questo romanzo
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