Come una guerra
di Nicolas Mathieu
traduzione di Margherita Botto
Marsilio, 2020
pp. 400
€ 18,50 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
La fabbrica aveva divorato intere generazioni, sopravvivendo agli scioperi, mantenendo famiglie, distruggendo coppie, sfibrando i corpi e le volontà, inghiottendo i sogni dei giovani, le rabbie dei vecchi, l’energia di tutto un popolo che in fin dei conti non desiderava più un destino diverso. (p. 133)
La fabbrica è, nell’immaginario collettivo, il luogo degli scontri fra padroni e operai, della catena di montaggio, di generazioni di inizio novecento volte al naufragio. La si immagina enorme, grigia, asettica, animata da uomini e donne vestiti di blu, i volti concentrati sulla singola mansione a cui sono addetti nella grande catena di montaggio. Se pensiamo al terzo millennio – a oggi – probabilmente non consideriamo la fabbrica come il luogo deputato a rappresentare il presente, che forse viene meglio raccontato da uffici smart, colletti bianchi e braccia automatizzate.
Eppure la fabbrica, come fosse un entità a se stante, esiste ancora e respira fra noi. È ancora un luogo di attività e di scontri, e che ancora riesce a far sopravvivere famiglie e strutturare destini. Mathieu, nel suo romanzo d’esordio, pubblicato in Francia nel 2014 col titolo Aux animaux la guerre, grazie al quale ha ottenuto il Prix Erckmann-Chatrian e il Prix Mystère de la critique, ce la presenta così: come un vecchio pachiderma stanco che lentamente si sta lasciando morire; come un relitto del passato, qualcosa che avrebbe dovuto cessare di esistere anni fa ma che, proprio in quanto animata da masse di persone che non vogliono perdere la propria identità e che alla fabbrica hanno a volte dedicato l’intera esistenza, è ancora qui fra noi e sta esalando gli ultimi respiri. Il mercato del lavoro, però, è un ambiente dinamico, volendo usare un eufemismo: fra i vari settori della cultura umana è forse quello che meglio rappresenta il motto della selezione naturale, quella sopravvivenza del più adatto (“survival of the fittest”), nel quale non c’è spazio per le debolezze, tantomeno per l’incapacità di stare al passo con i tempi. I costi delle fabbriche sono enormi, i ricavi ridotti all’osso; altrove, nei paesi meno sviluppati, c’è chi chiede di meno per svolgere lo stesso lavoro. Quanto si può sopravvivere?
Questo è uno scenario che di per sé è già luogo fertile per
un romanzo noir. A volte non c’è bisogno di inventare granché, basta saper
scegliere l’ambiente adatto, la provincia adatta – quei Vosgi al confine
orientale della Francia, terre sperdute fra i monti –, la stagione adatta, ed
ecco che abbiamo il terreno perfetto per la catastrofe: un inverno rigido fra i
monti e le colline francesi in cui sorge una fabbrica in declino. La mente va
subito alla povertà, ai conti a fine mese, al bisogno di trovare dei soldi e
alla svelta; alla criminalità, a una mafia di nuova generazione, alla violenza.
Così, i personaggi di Mathieu vivono costretti ad azzannarsi a vicenda. Che siano adolescenti o anziani, uomini o donne, loro si azzannano a vicenda per restare a galla. A volte è difficile empatizzare con loro perché, pur animati da una malvagità prettamente umana, vivono una tragedia di non facile comprensione. Non ci sono sogni di gloria, qui, solo il bisogno disperato di fare un passo avanti, di sopravvivere un altro giorno. In questi posti di provincia dimenticati da qualsiasi dio, la violenza è il sale della terra, il collante che sembra dare senso alle cose, che dei destini umani è motore oscuro. La sopravvivenza non è cosa da tutti i giorni, non sembra essere un problema da primo mondo. Invece lo è, ci dice Mathieu. Lo è eccome.
Nicolas Mathieu, col suo Come
una guerra, ci racconta ciò che accade lontano dai centri abitati, in quella
provincia che spesso scompare alla vista eppure anima il nostro presente. Nel
suo romanzo non c’è spazio per le risate e la gioia. C’è spazio per qualche
orgasmo, sì, ma anche quelli sembrano strappati al destino con i denti e non
danno poi tanta soddisfazione. Un librone, decisamente, che solleva questioni
morali e lascia atterriti nel finale.
David Valentini
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