di Vladimir Nabokov
Adelphi, 2020
Traduzione di Guido Ragni
A cura di Anna Raffetto
pp. 364
€ 13 (cartaceo)
€ 6,99 (ebook)
Il titolo originale di quest'opera ci svela già molto su come essa vada interpretata. Una raccolta di saggi autoconclusivi, che la prefazione, scritta a posteriori da Nabokov stesso, definisce come «un insieme di ricordi personali (…) che copre un periodo di trentasette anni, dall’agosto del 1903 al maggio del 1940» (p. 13): anni peregrini, scanditi nella prima infanzia dai lunghi viaggi in treno e dalle villeggiature in località balneari e in ville di campagna, e poi la forzata emigrazione a Cambridge per gli studi universitari, quando la famiglia Nabokov dovette rifugiarsi in Europa occidentale dopo lo scoppio della rivoluzione russa. E poi Berlino e Parigi, i primi romanzi, e il matrimonio con Véra. La prima metà della lunga e variegata vita dello scrittore che forse più di tutti è riuscito a rifuggire le logiche nazionalistiche della letteratura, che lo vorrebbero scrittore russo o americano. In questi saggi, dedicati soprattutto alla Russia della sua prima infanzia, Nabokov dimostra quanto queste linee di demarcazione siano fragili e posticce: il ricordo della Russia zarista è vivissimo nel suo presente, e l’abilità con cui la prosa riporta in vita la campagna pietroburghese e le case della famiglia Nabokov, con precise pennellate dai colori estremamente vividi, testimoniano la costante presenza di questi ricordi nei più di cinquanta traslochi che lui ricorda di aver fatto. Sebbene gli oggetti della sua prima infanzia siano andati persi - i quaderni dove scrisse i suoi primi versi, le sue prime collezioni di farfalle, le fotografie e gli album di famiglia - Nabokov non ha bisogno di oggetti concreti per mettere in moto la macchina del ricordo: ogni anno da lui vissuto è lì con lui, vivissimo, ordinatamente affiancato agli anni precedenti, ed è facilmente ritrovabile sotto ogni giorno del presente.
Eppure lo scopo di Nabokov non è semplicemente la messa per iscritto di queste impressioni. Il titolo che avrebbe voluto dare al romanzo, rifiutatogli dal suo primo editore, era Speak, Mnemosyne: una personificazione ancor più forte del ricordo nella figura della musa. Un'idea incarnata del ricordo, che spiega perfettamente la folla di personaggi che riempie ogni istante della memoria di Nabokov. Genitori, zii, cugini, e poi istitutori d’inglese, di francese, e più avanti le prime relazioni amorose: le prime due decadi della vita di Nabokov sono piene di figure d’affetto, che poi si diradano negli anni solitari di Cambridge, dedicati alla scrittura di versi e al saltare le lezioni, e poi negli anni da émigré a Berlino e Parigi, dove, sebbene in contatto con il resto dell’intellighenzia russa in esilio, gli amici veri furono pochi. Da questo nucleo primordiale di affetti Nabokov sembra trarre la luce e il calore anche nei decenni successivi, e il recupero delle loro voci attraverso il lungo racconto di Mnemosyne serve a convogliare questo calore a colei che questi anni non li ha testimoniati: Véra, moglie amatissima di Nabokov, la cui importanza nell’opus nabokoviano, come musa ispiratrice e editor implacabile, non viene mai ricordata abbastanza. Ma in quest’opera lei è in prima fila: non solo la discreta dedica porta il suo nome, ma anche nell’opera lei ricorre di tanto in tanto come apostrofe, come un “tu” poco in rilievo nella prosa. Lei è l’ascoltatrice della voce del ricordo, per lei Nabokov recupera il suo passato e descrive minuziosamente figure e panorami; ed è per questo che i ricordi condivisi di Vladimir e Véra non sono dischiusi al lettore. Scopriamo i dettagli del volto di Tamara, prima fidanzata di un Nabokov adolescente, e le piccole idiosincrasie dell’istitutrice Mademoiselle O; veniamo a sapere tutto di zii lontani e cugini notevoli, delle abitudini più particolari della madre e del padre, e episodi salienti della loro vita. Ma non sappiamo niente di come Vladimir e Véra si siano incontrati, innamorati, sposati. Véra, sempre presente eppure fantasmatica, appare in prima persona solo nel racconto della nascita del figlio Dmitri, nell’infanzia di seconda mano rivissuta da Nabokov nei giardini di Berlino e Parigi, e infine nell’immagine del piroscafo che collega la Francia con gli Stati Uniti che chiude l’opera. È al nostro fianco mentre leggiamo, non di fronte ai nostri occhi, e non riusciamo a discernerne che il profilo del viso con la coda dell'occhio.
Eppure, Véra a parte, lo stile di Nabokov qua tocca il suo apice nella rappresentazione di caratteri umani. Tutte le esperienze della sua infanzia, come la scoperta dell’entomologia, la meraviglia di fronte alla composizione della sua prima poesia, il multilinguismo in cui è cresciuto, vengono incarnate in qualcuno: il padre a cui il piccolo Vladimir mostrava le sue farfalle catturate, la madre a cui egli declamò la sua prima poesia e poi molte altre, i molti istitutori provenienti dal Regno Unito, dalla Francia, dalla Svizzera. Tutti questi personaggi vengono descritti in uno stile piano, lento, quasi dimesso, che se all’inizio sembra essere spogliato di quella raffinatezza pungente che ben conosciamo come tipica dell’autore, si rivela poi in realtà più immaginifica che mai. Una memoria narrativa, trasfigurata dal ricordo, che riesce a creare immagini uniche per convogliare quella continuità tra passato e presente che è il legante che tiene insieme tutta la vita di Nabokov. La farfalla sfuggita nel parco della villa di Vyra a un Nabokov impubere che, secondo lui, sarebbe la stessa poi catturata a cinquant’anni negli Stati Uniti, arrivata lì dopo un volo lungo decenni sopra l’Alaska; i cocci trovati dal figlio Dmitri su una spiaggia italiana che sarebbero perfettamente combacianti a quelli trovati lì trent’anni prima da un Vladimir bambino, nonché a quelli trovati, sempre sullo stesso lido, dalla madre Elena, cinquant’anni prima; un susseguirsi di andate e ritorni, di tesi, antitesi e sintesi, ben sintetizzate nell’immagine della «spirale colorata in una biglia di vetro» (p. 297) che, secondo Nabokov, rappresenterebbe la sua vita.
Ritrovare il passato per riconoscerlo nel presente, dunque. Come un novello Proust incarnato nel protagonista di Alla ricerca del tempo perduto, opera non a caso amatissima da Nabokov; descritta nelle sue Lezioni di letteratura (1980), la monumentale opera simbolo del modernismo francese viene evocata anche in questi saggi con citazioni più o meno celate, come il «Per tutta la vita ho avuto difficoltà a prendere sonno» (p. 117) che ricalca l’incipit proustiano, o la scena del piccolo Vladimir portato a letto dalla madre. Se il tempo, per Nabokov, non procede in modo lineare, ma si dipana come una spirale che torna sempre su sé stessa, e porta con sé ad ogni passo le anse e le curve del proprio percorso, la scrittura autobiografica diventa un modo di tracciare la mappa del presente, prendere rigorosissime misure della propria esistenza… Per poi divellere ogni limite tra passato e presente, riappropriandosi del tempo passato ma mai perduto.
Marta Olivi
Marta Olivi