di Lev Tolstoj
Edizioni E/O, ottobre 2020
traduzione di Raffaella Setti Bevilacqua
pp. 208
€ 10 (cartaceo)
Mai come in questi tempi si è tanto discusso di come debba essere la scuola e quale sia la migliore istruzione da propinare alle nuove generazioni. Un coro di voci dissonanti si sovrappongono in DAD! DDI! Bisogna fare il PAI poi il PIA e in fine il PDP. Insomma, una scuola ridotta ad acronimi incomprensibili, finanche per noi del mestiere. Ma cos'è la scuola, chi sono gli studenti e chi è l'insegnante? Sono domande a cui è difficile rispondere in tempi normali, figurarsi ai tempi del Covid.
Molti propongono soluzioni e metodologie didattiche, a partire dai pedagogisti fino agli pseudocompetenti in materia. Nonostante ciò, l'istruzione rimane un campo in attesa di essere arato con criterio, poiché è un terreno mutevole e incontrollabile, dove una paziente e costante ricerca è necessaria.
Più di un secolo fa, Lev Tolstoj, uno dei più grandi narratori della letteratura russa e docente attento e appassionato, aveva intuito quanta importanza ha la scuola per le generazioni che saranno e quelle che dovranno ancora essere.
Ma andiamo con ordine.
Tra il 1860 e il 1861 Tolstoj viaggia per l'Europa e conosce Victor Hugo e l'anarchico francese Pierre-Joseph Proudhon, i quali non solo furono d'ispirazione a quello che è uno dei romanzi più apprezzati della letteratura universale, Guerra e pace, ma illuminarono lo scrittore russo sui precetti pedagogici che via via si andavano affermando con la nascita delle prime scuole rivolte anche ai bambini meno abbienti.
Pieno di entusiasmo, Lev Tolstoj decide di ritornare a Jasnaja Poljana, sua terra natale, e fonda ben tredici scuole pensate soprattutto per le giovani generazioni della Russia contadina.
L'esperienza diretta del docente-scrittore con la pedagogia vis-à-vis è descritta nel saggio Per una scuola viva, per una scuola vera edito da E/O per la collana Piccola Biblioteca Morale (PBM) diretta da Goffredo Fofi - scrittore, attivista, giornalista e critico cinematografico, letterario e teatrale, con il fine di «reagire all'abulia della cultura di questi anni» (p. 199) e «ricominciare a pensare, cercando e trovando lo stimolo necessario a difenderci dalle idee correnti e manipolate, e perfino, come massima aspirazione, lo stimolo ad agire» (p. 201).
Senza dubbio, le parole di Tolstoj sono di grande stimolo e ci portano a riflettere e a volte rivedere le congetture più radicate e dogmatiche, o al contrario, possono essere rigettate con forza e convinzione.
Ma ritorniamo alle domande di apertura. Tolstoj affermava: «Sono convinto che la scuola non debba immischiarsi nel processo educativo, che è compito esclusivo della famiglia, che la scuola non debba premiare e castigare e non abbia diritto di farlo, che la migliore sorveglianza e il miglior modo di amministrare la scuola consistano nell'offrire agli allievi piena libertà di studiare e organizzarsi come vogliono» (p. 33). Chiunque, che si tratti di docenti, genitori o semplici tuttologi, arriccerebbe il naso, poiché la scuola odierna è esattamente tutto ciò che lo scrittore russo rifiutava.
Quella di Tolstoj era una scuola fondata sul "libero ordine", senza banchi, senza sedie (alcuni bambini preferivano sdraiarsi sotto il banco del maestro), senza quaderni e penne, dove gli alunni potevano decidere come e se ascoltare l'insegnante, e in caso contrario potevano addirittura andare via e decidere liberamente se tornare o boicottare la lezione per i mesi a venire. Oggi parleremmo di studenti indisciplinati, o come l'etichetta più moderna suggerisce, li definiremmo "studenti non scolarizzati". Tolstoj li definiva "studenti spontanei" a cui bisognava suscitare l'interesse storico, geografico, letterario e artistico, «per far sì che l'allievo si abbandoni completamente alle mani dell'insegnante, bisogna aprirgli una parte di quel velo che gli ha tenuto nascosto tutto il fascino del mondo del pensiero, della conoscenza e della poesia» (p. 129).
Molti, in questi giorni, su social media, giornali o magazine hanno bocciato il sistema pedagogico tolstoiano, dimenticando l'elemento più importante: il contesto russo degli anni '60 del 1800.
Nella scuola di Jasnaja Poljana «sono rimasti solo i figli dei contadini che vengono d'inverno, mentre nella stagione estiva, da aprile fino alla metà d'ottobre, lavorano nei campi» (p. 57). Pertanto, erano solo cinque i mesi a disposizione dei docenti di quella parte di Russia tolstoiana, e non solo. Molti genitori credevano che l’istruzione fosse una perdita di tempo, per non parlare di quei pochi adulti che sceglievano di andare a scuola per (ap)prendere solo ciò che era necessario, poiché «sente continuamente che ogni giorno perso a scuola è un giorno perso per il lavoro, che costituisce il suo unico capitale» (p. 58). In sostanza, il docente Tolstoj e i suoi colleghi disponevano davvero di poco tempo nonché della misera concentrazione da parte degli allievi. Detto ciò, come dare torto alla sperimentazione avanguardista, a tratti irriverente, almeno secondo il nostro sguardo culturale, di colui che non accettava metodi ma solo sistemi di insegnamento?
La scuola di Jasnaja Poljana aveva un piano didattico ben fornito: lettura strumentale, «ritenevo che i fanciulli, per imparare a leggere, dovessero amare la lettura e che, per amare la lettura, fosse necessario che ciò che si leggeva fosse comprensibile e divertente» (p. 64), e a detta di Tolstoj gli unici due libri che i figli dei contadini potevano comprendere erano le favole di Chudjakov e Afanas’ev; lettura graduale, cioè la conoscenza della lingua letteraria, su cui il docente avanza una critica ardente, data l’impossibilità da parte del popolo di capire i bei libri letterari: «Per istruire il popolo è indispensabile avere la possibilità e la voglia di leggere buoni libri; i buoni libri sono scritti in un linguaggio che il popolo non capisce. Per poter imparare a capire, bisogna leggere molto; per leggere volentieri, bisogna capire… In che cosa consiste l’errore e come si può uscire da questa situazione?» (p. 81). Oggi, questo problema è stato in parte risolto con le letture graduate o intermedie, che probabilmente avrebbero reso felice il Tolstoj docente, oltre l’ausilio dell’insegnante per le chiarificazioni più difficili. Infine, tra le altre offerte formative, gli alunni potevano scegliere tra la lezione di scrittura, grammatica e calligrafica, la stesura dei componimenti, la storia sacra, la storia e geografia, il disegno o il canto.
Insomma, in soli cinque mesi si tentava di sollevare il lembo di quel velo davanti agli allievi, evitando qualsiasi tipo di intromissione spiacevole, come un’interrogazione individuale dove «un adulto tortura un piccino, senza averne alcun rispetto» (pp. 109-110), una punizione di qualsiasi natura, e le nozioni riempitive, tipiche delle scuole europee, inutili per Lev Tolstoj considerato che «tutti questi esercizi (scrivere frasi, con date parole, comporre versi e indovinare parole) hanno una meta comune: rendere l’allievo consapevole che la parola è parola, che ha le sue leggi irremovibili, i suoi mutamenti, le sue desinenze e relazioni fra queste desinenze. La consapevolezza di ciò impiega molto tempo per entrare in testa agli allievi, ed è indispensabile possederla prima di iniziare la grammatica» (p. 97).
D'accordo o meno, forse oggi a mancare è proprio quella consapevolezza di cui parla lo scrittore russo, che al contrario ci conduce nelle strade cieche di nozioni, acronimi e regole, intrappolandoci nei metodi, o per dirla alla Tolstoj, nei sistemi non d’insegnamento ma di disorientamento didattico.
Olga Brandonisio
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