Elliot, 2020
pp. 153
€ 16,50 (cartaceo)
€ 10,99 (ebook)
Con Lo specchio attento, Elliot prosegue l’edizione delle opere di Silvio Raffo, già iniziata con La voce della pietra e Il segreto di Marie-Belle (recensiti qui e qui). Viene riproposto in questo caso uno dei primi testi dell’autore, risalente al 1972. Si trovano in questo romanzo tutti i temi cardine della narrativa di Raffo, ma ancora non del tutto rifiniti, in uno stato embrionale che risulta perciò tanto più veritiero (e più inquietante).
Rapportando quel che emerge dalla lettura con l’intervista che l’autore ci ha rilasciato (la trovate qui), si può infatti intravedere nel testo una traccia neanche troppo labile di elementi autobiografici (l’incontro con una docente fondamentale per il processo formativo; la passione per Emily Dickinson; una certa solitudine rispetto ai coetanei; la sensibilità spiccata) che risuonano, qui, rielaborati e quasi esorcizzati attraverso la forma narrativa.
La lontananza della composizione si avverte chiaramente soprattutto se si compara l’opera alle successive. Anche a livello stilistico, si può notare in questo volume una prosa più fiorita, lirica, piena di inarcature, inversioni ed espedienti retorici, come non manca di sottolineare anche la postfazione. Se da un lato questo denuncia la giovane età dell’autore al momento della scrittura, dall’altro contribuisce ad aumentare la suggestione del testo, l’impatto dell’atmosfera gotica che emerge sotto una patina di apparente normalità. Il racconto è segmentato in capitoli brevissimi, che spezzano il respiro e accrescono la tensione.
Protagonista dell’opera è Giorgino, che scrive mosso da un desiderio di ordine, perché “nell’ordine e nella luce è il bene, essendo il male oscurità e disordine” (p. 11). La ricerca del bene passa allora attraverso un’operazione di scavo nel passato, alla ricerca delle origini di un male che solo nel tempo va definendo la sua natura. Solo esponendo al sole le proprie piaghe, si nota al principio, si può impedire che marciscano, farle rimarginare, coltivare l’illusione di una guarigione anche laddove pare improbabile.
Georgino cresce in un universo popolato da donne affascinanti e autoritarie, in diverso modo dominanti (“la mia infanzia invero non aveva mai conosciuto figure maschili”, p. 24): la madre inglese, convinta che lui sia il bambino più bello del mondo, da lei rubato a suo tempo alla “fiera delle meraviglie”, e la professoressa del ginnasio, grande celebratrice del proprio mito personale che elegge il ragazzino come suo pupillo. Il legame esclusivo con queste due polarità femminili rende ancora più spiccato il suo isolamento rispetto ai coetanei, e al mondo in generale.
Nel momento in cui “incomincia a parlare”, assumendo di volta in volta il ruolo di diversi personaggi, il suo è un atto cosciente, per fronteggiare una mal sopportata solitudine. Gli interlocutori che sceglie sono persone reali, spesso la madre o la Signorina. Spesso, quando non parlano con lui, parlano di lui. Sempre di più, però, questi dialoghi si slegano dalla sua volontà, voci sconosciute iniziano a dominarlo, a palesarsi al di fuori del suo controllo diretto (“mi domandai chi poteva essere dunque stato a parlare. [...] Era come se io sapessi che stava parlando in me una precisa persona, solo faticassi a identificarla, perché non mi ricordavo o perché essa aveva parlato con prepotenza, senza presentarsi: più probabilmente, cioè, dovevo ancora conoscerla”, p. 34). In questi interventi sempre di più si distingue una voce di donna. La voce di Ester, di cui inizialmente Giorgio sa poco, quasi solo che è un’insegnante. Una voce che lo sovrasta, una voce che lui si rende conto di aver sempre atteso e che pure lo terrorizza: “il non sapere se mi fosse amica o nemica mi angosciava. Se l’avevo creata io, come poteva essermi nemica? Eppure il suo potere aveva qualcosa di spaventoso” (p. 39).
Ester ha una vita autonoma, una storia complessa, un passato da ricostruire, che si dilata a travolgere il presente di Giorgino. Come nello specchio della fiaba, quello che rivela il vero volto della strega, Ester è ad un tempo creatura totalmente indipendente e proiezione, portatrice di una verità deformata. Ma, come il protagonista comprende un po’ per volta, la verità è pericolosa, tagliente e può uccidere.
Il “gioco” di Giorgio si fa drammaticamente serio e lo allontana sempre di più dalla realtà, cui non sente di appartenere. Inizia a provare “una sorta di freddezza, di lucidità che non lasciava al mio gioco più nulla di infantile” (p. 52). Lo svuotamento che prova nella sua scissione, nella sua disgregazione, diventa quasi un consolante rifugio. L’aspetto più interessante di un’opera per tanti versi acerba (complice anche un editing non del tutto puntuale) è la scelta di Silvio Raffo di rifiutare qualsiasi tentativo di medicalizzare il male. Il disturbo della personalità del protagonista viene letto attraverso il ricorso al tema immortale del doppio oscuro, che emerge come un malessere non rivelato dai fondali incerti della coscienza e si fa presenza assillante, finanche soverchiante.
Nel momento in cui, a dispetto della dichiarazione iniziale, l’ordine viene associato alla morte più che alla vita, la sorte del protagonista si inserisce in una china discendente, in una inesausta ricerca del nulla:
Capii guardando quel corpo che nella morte tutto si ricompone: prima di disfarsi, le membra riacquistano l’ordine perfetto, l’esatta dimensione, la forma immobile cui aspiravano, la quiete, l’equilibrio, l’autonomia nell’assenza totale di ogni movimento, nell’assestarsi compiuto di ogni vibrazione. Capii che la morte mi interessava più della vita, che dovevo irrigidirmi sempre più per raggiungere quell’ordine, quella fissità… Io non devo avere una vita, mi dissi. Ester ascoltava dentro di me, e sorrideva. (p. 64)
“Io sono intero. Sono intero dalla testa ai piedi. Anch’io sono solo” (p. 71), confessa Giorgino a chi inaspettatamente si preoccupa per lui, in un rarissimo momento di apparente normalità. Eppure la sua affermazione non corrisponde al vero, perché al lettore il ragazzo appare lacerato, o interamente occupato da una presenza altra, che diviene ogni giorno più ingombrante, col suo carico di traumi e di ricordi. Il protagonista cede all’idea che ogni relazione umana sia vana, perché solo dall’interno di sé può derivare la verità. Eppure anche la verità che viene da sé non può avere nulla di rassicurante, di consolante. Nel trionfo di questo solipsismo, portato all’eccesso, nella lettura dell’umano come monade dispersa e non ricomponibile in un intero (una verità questa che solo lo specchio, più attento del protagonista, fin da subito intuisce), si cela la radice del fallimento di Giorgino.
Quello di Raffo è romanzo povero di eventi, che si articola tutto intorno alle sensazioni dei protagonisti, e fino a pochissime pagine dalla fine ancora non si capisce quale direzione prenderà la storia, anche se si può prevedere che sarà tragica.
Il volume chiede, come quelli precedentemente editi, una sospensione del giudizio morale per quanto riguarda i rapporti di accudimento spesso distorti, certo luttuosi, grevi di conseguenze funeree per chi vi viene implicato. Non è questa forse la lettura più adatta per chi si avvicina per la prima volta all’opera di Silvio Raffo (e in tal senso è stata intelligente la scelta di partire nella ristampa da opere della maturità, che valorizzano al massimo i temi a lui più cari). Al contempo, però, questa è una lettura da cui non può prescindere chi voglia conoscere e comprendere appieno la parabola creativa dello scrittore.
Carolina Pernigo
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