di Virginie Despentes
Fandango Libri, novembre 2020
Traduzione di Silvia Marzocchi
pp. 224
€ 17,00 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
Lungi dai vivi popoli, dannate, erranti,Voi correte come lupi attraverso i desertiIl vostro fato seguite, anime torbide,E fuggite quell’infinito che portate in voi.
Si apre con questa citazione di Baudelaire la seconda parte di “Scopami”, libro d’esordio della scrittrice francese Virginie Despentes, pubblicato per la prima volta nel 1993 e subito considerato un romanzo-scandalo.
Le protagoniste, Nadine e Manu, sono due vittime del mondo e soprattutto di loro stesse. Le consuma una rabbia feroce, ardente come le fiamme di un rogo che non vuole spegnersi mai. Manu è un’attrice porno, costantemente alla ricerca di soldi per provare nuove marche di whisky e sigarette. Troppo impaziente per aspettare che lo smalto scarlatto si asciughi sulle unghie. Nutre un profondo disprezzo per tutto e tutti. Parla in modo volgare e pensa solo alla prossima vittima con cui condividere un letto e ubriacarsi fino a quando la mente risulterà tanto annebbiata da non riconoscere più la realtà. Quando suo fratello Camel si toglie la vita, Manu liquida la vicenda con totale apatia: non è abituata a mostrare il suo dolore, lo tiene nascosto in un angolo che nemmeno lei sa esattamente dove si trovi.
Nadine è una prostituta, ossessionata al limite della perversione da giornali e film porno, stordita come Manu dall’alcool e dalle droghe, e da qualsiasi eccesso che le possa annebbiare i pensieri fino a non riconoscere più il mondo in cui vive. Vive con Séverine, una ragazza mediocre che passa le sue giornate e rimproverarla e a cercare di insegnarle cosa sia morale e cosa no, portando Nadine a fantasticare sulla sua morte, tanto questa sua ipocrisia la irrita.
Inizialmente le vite delle due protagoniste corrono su due rette parallele, ma sentiamo che prima o poi queste due linee convergeranno in un’unica sola. Sì, perché Manu e Nadine sono fondamentalmente identiche, condividono emozioni, interessi, stile di vita e lo stesso destino: sono entrambe oppresse, vittime di una società e di una pressione maschilista che le ha scartate e dimenticate a un angolo della strada, orfane di giustizia, cieche di rabbia e assetate di vendetta. Rifiutano con fermezza la vita ordinaria e mediocre che non permette quella che loro identificano con la libertà. Sono aggrappate alla vita come Francis, unico amico di Nadine, che “ama la vita con un’urgenza che lo taglia fuori dalla vita” (p. 31). Possiamo definire le due donne come ombre invisibili, rappresentanti di categorie che vivono ai margini della società.
Le loro giornate si susseguono in un loop costante di violenza, stupri, post-sbornia e astinenza da nicotina, come le canzoni che Nadine ascolta ossessivamente con il suo walkman, sempre mezzo scassato e con il volume talmente alto da forare i timpani. Manu e Nadine non conoscono limiti, credono in un solo dio: loro stesse. Riprendendo le parole di William Ernest Henley, dalle carceri del Sud Africa, Nelson Mandela affermava: “Io sono il padrone del mio destino. Io sono il capitano della mia anima”. Questa è la convinzione intima anche di Manu e Nadine, che però non hanno nessun progetto, grande o piccolo che sia, non confidano in niente e in nessuno se non nella loro stessa ira.
La rabbia che divampa nei loro cuori arriva al culmine quando decidono che la loro sete di vendetta deve essere assolutamente placata per pareggiare i conti con gli abusi subiti per anni. Nadine commette il suo primo omicidio; Manu parallelamente fa lo stesso, e da quel giorno non si ferma più: le pagine del libro si macchiano del sangue di tutte le persone che brutalmente uccide come se fosse un gioco. Le loro strade si uniscono una mattina, quando Manu trova Nadine appoggiata al muro di una grigia stazione, con la musica nelle orecchie e nello sguardo l’apatia tipica di chi non ha niente da perdere. Le due diventano inseparabili, condividono la fuga e iniziano a lasciare dietro di sé una scia di efferati omicidi, compiuti non per denaro, ma per rivendicare il diritto a una vita che non è mai appartenuta né all’una né all’altra.
La scrittura sembra proiettarci in un videogioco di guerra, il ritmo è rapido e incalzante, segue la velocità degli spari che partono dalla Smith & Wesson di Manu, per conficcarsi nella pancia di innocenti che hanno la sola colpa di essere dal lato sbagliato della pistola. Sparo dopo sparo, cadavere dopo cadavere, Nadine pensa che finalmente gli altri hanno qualcosa di vero di cui parlare, da giudicare:
C’è sempre stato tra lei e gli altri uno spazio, questo qualcosa di terribile che lei aveva sempre avuto paura che scoprissero ma era ridicolo perché non aveva niente da nascondere. Adesso ha delle buone ragioni per temere la loro indiscrezione, delle buone ragioni per trovare la troppa amabilità fuori luogo. (p. 107).
La loro fuga in macchina, il loro forte desiderio di evadere da una società opprimente e maschilista, da un mondo che le ha private di tutto, ricorda molto il viaggio di Thelma e Louise, protagoniste dell’eponimo film del 1991. Sorelle non di sangue ma per scelta, come Manu e Nadine, anche loro si trovano in fuga dopo aver ucciso un uomo che aveva provato a violentare Thelma. La differenza tra le due coppie di amiche è tuttavia evidente. Mentre Thelma e Louise uccidono per legittima difesa, Manu e Nadine si vendicano della società accanendosi su degli innocenti. Inoltre le prime, fatta eccezione per il viaggio che intraprendono e che doveva essere solamente una vacanza tra amiche, vivono una vita tranquilla, lontana dall’assenza di limiti e dalla dissolutezza che caratterizza invece le esistenze delle giovani francesi. Thelma e Louise sanno però di essere inseguite dalla polizia e di rischiare l’ergastolo, così come sanno di non essere mai state così felici e libere, e di vivere solamente secondo le regole che si sono scelte, non più sottomesse ma padrone del loro destino, esattamente come Manu e Nadine. Il viaggio verso la loro fine, accettato con serenità, è lo stesso che compiono anche le ribelli assassine in un silenzio squarciato solo dai colpi di pistola e dalla risata grottesca e macabra che esce dalle loro bocche livide.
Questo romanzo brutale si legge tutto d’un fiato, come la corsa disperata in macchina che le due protagoniste intraprendono con l’idea di fuggire da una realtà che è al tempo stesso il luogo e la causa del loro smarrimento. Proviamo istintivamente ammirazione per queste due donne che non hanno nulla da perdere e non temono di guardare nel vuoto in cui si specchiano quotidianamente. A questa ammirazione si aggiunge presto però anche l’amarezza. Avvertiamo infatti che al mondo esistono anche esseri umani che non sono visti. Abbandonati ai lati delle strade, essi vengono giudicati da una borghesia che li opprime senza permettere loro di vivere dignitosamente.
I contenuti e le tematiche, fortemente critiche, prevalgono in questa opera prima sullo stile, ancora molto acerbo e “nudo”, ancora lontano dagli esiti formali e sostanziali della sublime “Vernon Subutex. La trilogia di Parigi”, che quasi vent’anni dopo frutteranno alla scrittrice prestigiosi premi letterari.
“Scopami”, dal titolo provocatorio e paradossale che è allo stesso tempo inno alla libertà individuale e un invito per gli uomini a farsi avanti per poi venire brutalmente sconfitti, sovverte il punto di vista comune, e ci mostra il mondo attraverso gli occhi di due donne erranti e dannate (riprendendo la citazione baudelairiana), vittime del potere, incatenate come bestie a un’urgenza di giustizia e identità che sembra placarsi solo con la loro (auto)distruzione. Le urla e gli spari sono così l’unico modo di farsi finalmente ascoltare.
Lidia Tecchiati
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