Hiroshige.
Paesaggi celebri delle sessanta province del Giappone
a cura di Anne Sefrioui
traduzione dal francese di Margherita Botto
L’ippocampo, 2020
Cofanetto con:
pp. 40 (opuscolo)
pp. 196 (stampe)
€ 29,00 (cartaceo)
Dall’autore di un album di successo come Paesaggi celebri delle sessanta province del Giappone, apparso in patria tra il 1853 e il 1858, ci si aspetterebbe come minimo l’indole nomade del viaggiatore e del pellegrino oltre che quella curiosa di chi, pur esplorando un territorio di appartenenza, si facesse etnografo di se stesso grazie alle risorse offerte dal disegno, dall’incisione e dalla stampa. Non fu proprio questo, invece, il caso di Utagawa Hiroshige (1797-1858), tra i più importanti esponenti dell’ukiyo-e, ovvero di quel movimento artistico dell’Estremo Oriente interessato alla resa delle “immagini del mondo fluttuante” e in cui anche il paesaggio, lungi dall’essere un mero fondale, divenne a poco a poco protagonista di per sé (al punto da dare vita a un genere autonomo, il meisho-e, avviato e fiorente fin dai primi decenni del XIX secolo). Ispirato a opere già esistenti, ovvero ad alcuni album regionali tra cui spiccano soprattutto i Paesaggi straordinari di montagne e di acque di Kyokkō Fuchigami (1753-1816) pubblicati nel 1800 e 1802, il lavoro che consacrò Hiroshige poco prima della morte non fu dunque il frutto originale di un’esplorazione diretta, ma si innestò palesemente e liberamente su una maniera altrui risalente a decenni prima. Quale fu, dunque, il segreto del suo successo nonché la ragione che ne fece uno degli artisti più influenti in Europa di lì a poco? Una risposta efficace potrebbe essere: il perfetto connubio di tradizione e innovazione (non disgiunto da un sentimento specialissimo e “religioso” della natura). Da una parte, difatti, ci fu la rielaborazione personale dei soggetti, dall’altra l’introduzione di accorgimenti compositivi e tecnici inediti: tutte caratteristiche ben apprezzabili ancora oggi nel volume che L’ippocampo ha appena pubblicato in omaggio al maestro giapponese.
Allievo precoce e prediletto di Utagawa Toyohiro (1774-1829), talmente talentoso da diventarne prima apprendista a quattordici anni, poi assistente e infine direttore di bottega, forse nemmeno Hiroshige avrebbe mai immaginato di legare il suo nome soprattutto all’arte del paesaggio: specializzatosi in stampe di beltà femminili, guerrieri celebri e attori del teatro kabuki, la sua vocazione avrebbe potuto ben risolversi nella resa di fattezze antropomorfe, caratteri, ruoli e maschere. Così, invece, non fu. Non solo il suo nome si legò al momento d’oro delle stampe meisho-e – una fase di benessere economico che ebbe nell’incentivo degli spostamenti sia una causa che un effetto – ma a lui vengono fatte risalire novità importanti sia per ciò che riguarda il formato (che passò da orizzontale a verticale tramite taglio dell’illustrazione originale, restringimento e spostamento di elementi, con giochi di proporzioni capaci di suscitare impressioni inedite) sia per l’introduzione della tecnica dello sfumato mediante sfregamento, foriera di effetti illusionistici incredibilmente raffinati quanto a profondità e tridimensionalità delle immagini. Risultati raggiunti anche grazie all’affiancamento di incisori e stampatori che non a caso vengono spesso citati sui cartigli, e tanto più significativi se si pensa alla decadenza a cui proprio certe soluzioni artigianali sarebbero andate incontro con l’avvento del progresso e l’importazione di suggestioni oltre che di procedimenti pratici occidentali.
Sfogliando il volume L’ippocampo non si può fare a meno di pensare al curioso destino di questo maestro dell’ukiyo-e, che pur essendo nato e avendo sempre vissuto a Edo viene ricordato per la sua raffigurazione di luoghi lontani e lontanissimi molto spesso non suffragata dall’esperienza diretta. Tuttavia, non appena libero dall’incarico di ispettore dei pompieri della caserma di Edo ereditato dal padre, ovvero a partire dal 1832, Hiroshige trovò nel paesaggio la sua principale e autentica vocazione, dando alle stampe il primo album di successo proprio nel 1832/1834: Cinquantatré stazioni di posta della strada di Tōkaidō, primo di una lunga serie di raccolte simili confezionate presso i migliori editori e le migliori botteghe di incisione e di stampa. Nei Paesaggi celebri delle sessanta province del Giappone le specificità locali sono rese di volta in volta con focus mirati, suggeriti da una sorta di prospettiva gerarchica basata sulle proporzioni, e riguardanti ora gli elementi naturali (vulcani, monti, promontori, miniere, grotte, vallate, sentieri, pinete, baie, spiagge, fiumi, laghi, sorgenti, cascate), ora l’intervento dell’uomo (la presenza di ponti come di case da tè); un’attività, quella antropica, descritta ulteriormente sia nelle circostanze lavorative più frequenti (i caratteristici pescatori e barcaioli) sia in quelle celebrative (la contestualizzazione delle varie feste, la disseminazione di templi e monasteri).
Immancabile nelle librerie di chi ha già acquistato i volumi dedicati alle Trentasei vedute del monte Fuji di Hokusai, alle Stagioni viste dai grandi maestri della stampa giapponese e ai maestri incisori che hanno descritto al pubblico il mondo altrimenti privato delle Geishe, questa nuova pubblicazione su Hiroshige permette per l’appunto di realizzare il perfetto “poker” a cui non vorranno rinunciare gli appassionati con smanie di collezionismo e sensibilità nei confronti del libro come oggetto prezioso e raffinato. Il consueto formato a leporello con tavolette telate, che esalta la purezza delle sole immagini senza intrusioni grafiche di altro tipo, ben si presta alla contemplazione e all’esplorazione visiva di questi panorami rivelatori di località, stagioni, usi e costumi. L’opuscolo comprensivo del testo critico di presentazione e delle didascalie relative alle singole stampe a firma di Anne Sefrioui fa il resto, corredando il tutto con i dati tecnici e contestuali utili a un apprezzamento più completo. La raccolta di Hiroshige si rivela così in tutta la sua ricchezza, esempio emblematico ed eccellente di una “maniera” destinata presto a involgarirsi e imbarbarirsi con l’introduzione di nuove tecniche occidentali (dal processo di stampa vero e proprio ai materiali, tra cui i pigmenti chimici al posto di quelli naturali) e massimamente per l’avvento della fotografia. Proprio per questo non si può che sfogliare il volume con ammirazione e struggimento, figurazione perfetta di tempi e di luoghi la cui dolcezza è quella tipica dell’attesa di ogni imminente rivoluzione.
Cecilia Mariani