di Fioly Bocca
Garzanti, 2020
pp. 288
€ 16,90 (cartaceo)
€ 9,99 (e-book)
Appena terminata la lettura dell'ultimo romanzo di Fioly Bocca, "Quando la montagna era nostra", riguardando la copertina, mi sono ritrovata a pensare che la storia che avevo appena chiuso era fatta proprio così, come l'immagine disegnata: una donna sola, lo sguardo all'orizzonte, pensierosa. Di fronte a sé tanti "strati" che, nella forma grafica, sono montagne. Nella narrazione gli "strati" invece sono pagine di vita, falde più o meno sotterranee, livelli più o meno nascosti, che riemergono come la punta di un monte dalla nebbia o, perlopiù, rimangono sotto pelle a formare un passato, una storia, una vita. Questo romanzo passa attraverso tutti questi piani, come vedremo, con la precisione di una freccia che s'infila, veloce, con la spietatezza di una siringa che buca la pelle, con l'inesorabilità di un pensiero che torna al passato e si chiede "E se avessi risposto in un altro modo? E se avessi agito diversamente? E se..."
Ma veniamo alla storia narrata. Lena (il cui nome è, al femminile, quello del fiume, il Leno, che attraversa la Vallarsa in Trentino, il locus amoenus dell'infanzia della protagonista) è una ragazza non più giovanissima (la immaginiamo sulla quarantina, qualcosa meno, ma non troppo) che vive tranquillamente la sua "singletudine": ha un lavoro che ama molto, fa l'insegnante, qualche anno prima ha chiuso una convivenza tiepida con "una separazione pulita, un cerotto che si stacca dalla ferita asciutta" (p. 161), ha instradato la sua vita su binari ormai tranquilli. E le sta bene così... apparentemente.
Questo lo scopriamo leggendo perché all'inizio del libro incontriamo Lena nel mezzo di quella che sarà una svolta nella sua vita: il ritorno nella casa dei genitori, nel paesino di montagna che l'ha vista crescere, per aiutare il padre Aldo a occuparsi della madre Dina, alle prese con i primi segni di quella malattia che ti mangia i ricordi. E con essi, la vita perché senza ricordare ciò che ti ha definito, plasmato, trasformato che vita rimane? L'anziana donna lo sa bene e per evitare che questo accada consegna alla figlia un quaderno sul quale Lena dovrà annotare i suoi ricordi mentre lei li racconta. Per Lena un eccesso forzato e non richiesto di confidenza, fisica e mentale mai sperimentata prima, che affronta con disagio, perché con quella madre severa, rigorosa, poco affettiva, un po' lontana ha sempre avuto un rapporto difficile. Ed ecco uno dei tanti strati del romanzo: il ruvido avvicinarsi delle due donne, che, come due oggetti spigolosi, cozzano e soltanto con molta fatica trovano una posizione fianco a fianco che permetta loro di non farsi male. E un senso di colpa latente perché alla classica e stupida domanda che a volte gli adulti si ostinano a fare ai bambini, "Vuoi più bene al papà o alla mamma", Lena non avrebbe avuto dubbi nel rispondere, tanto amava quel padre così tenero, presente, comprensivo, amorevole, complice. Un senso di colpa che era riuscita a tacitare soltanto allontanandosi. In più, e questo è un altro dei famosi strati, la madre confessa a Lena che, pur amando marito e figlia, il suo cuore batteva per un altro perché "il cuore non ha una stanza sola" (p. 203), un uomo che, nella confusione mentale in cui è caduta, le sembra di vedere sotto casa, ad aspettarla. Un altro dolore per Lena che, nel suo amore sconfinato per il padre vive la confessione della madre come un doppio tradimento.
E se i ricordi della madre piano piano svaniscono, fino a fossilizzarsi su quel ragazzo di un tempo, per Lena, al contrario, il ritorno a casa è un tuffo nella memoria: tutti i ricordi sembrano tornare vivi e prepotenti ad assalirla allorché rivede quello che era stato l'unico vero grande amore della sua vita, Corrado. Un rapporto durato anni, quelli belli, quelli della giovinezza, ma che si era interrotto bruscamente, senza un ciao, senza un vero perché. Un giorno Corrado era partito per andare a gestire un rifugio, con la promessa che sarebbe tornato a prenderla, per vivere insieme questa nuova avventura. E così com'era partito, era sparito. Senza più rispondere alle lettere accorate di lei, senza cercarla più. Una cicatrice che il tempo ha pressoché guarito, crede Lena. Che di cognome fa Costa, mentre Corrado si chiama Isola e nulla sembra rappresentare il loro rapporto più che i loro cognomi: mentre Lena rimane ferma, si fa terraferma, è Corrado ad allontanarsi, a isolarsi, a mettere un tratto di mare tra loro due, nati in montagna.
Corrado è un uomo difficile, segnato da un'infanzia tormentata: il padre, duro, anaffettivo, violento, manesco e la madre tenera, protettiva, sempre pronta a raccontare al figlio piccolo storie fantasiose per spiegare l'origine di certi lividi. Ed ecco un altro strato che fa capolino nell'intreccio del romanzo, ossia quanto i rapporti familiari possano essere tossici, sbagliati e incidere nella carne e nella psiche. Da notare poi il chiasmo affettivo dell'amore filiale per Corrado e Lena. E se Corrado fugge per paura di assomigliare al padre, comunque non può fare a meno di mettere alla prova Lena, prima e dopo, da fidanzati ed ora. Per far emergere qualcosa di più risoluto in lei, che tende a lasciarsi trasportare dagli eventi. "Non puoi farti andare sempre tutto bene" (p. 10), le dice dopo aver finto di lasciarla da sola al buio nel bosco. E forse è proprio questo il problema di Lena, lo scoglio contro cui si infrange la sua vita, accettare passivamente gli avvenimenti, non incidere sul corso del destino con una decisione, un colpo di testa, una virata. Aspettando nel contempo soltanto quelle cose che si attagliano perfettamente alle sue aspettative, rinunciandovi se per raggiungere la posta in palio ci poteva essere il rischio di perderla.
Forse, ho pensato tante volte, l'ho capito fuori tempo massimo: la mia vita è stata brace viva e ho lasciato che diventasse carbone (p. 123)
Sarà davvero così? Fuori tempo massimo? Può darsi, ma a volte la vita offre una seconda chance, permette raramente di provare a dare una sterzata a ciò che nel passato è andato in un certo modo. Il problema è sempre quello, rischiare.
Lena sente un braccio invisibile affondare dentro di lei e tirare fuori cose lasciate a marcire come vecchie foglie dentro uno stagno (...). Si chiede quanto lei stessa abbia combattuto per tenersi un amore, cosa avrebbe fatto se gliene avessero dato l'opportunità. O se avrebbe dovuto prendersela un'opportunità..." (p. 67-68)
Fioly Bocca tratta questo materiale, che a ben vedere ha a che fare con i grandi temi della vita, in un modo lieve, che non vuol dire leggero, riuscendo a far sì che il lettore rifletta mentre apparentemente segue i destini di una qualsiasi storia d'amore e quelli familiari di una qualsiasi famiglia, come tante, alle prese con l'invecchiamento dei genitori, che diventano persone diverse, da accudire, con un rapporto tutto da ricostruire su basi nuove e invertite. È un libro dalla semplicità solo apparente che ci porta a capire, a tifare, ad assecondare o a rifiutare. Un romanzo che ha al suo centro l'amore, certamente, ma anche e forse ancor più il ricordo, la memoria di piccoli frammenti, potenziali pezzi di vita, che avrebbero potuto essere e non sono stati. La scrittrice ci conduce piano piano nell'evolversi del romanzo, con un utilizzo (qualche rara volta non perfettamente maneggiato) del flashback, con un andare e tornare dal passato al presente e viceversa che, se da un lato, può spiazzare il lettore, dall'altro getta fasci di luce su tanti perché.
E poi c'è la montagna, onnipresente, imperiosa, con i suoi animali selvatici, misteriosi e atavici, un paesaggio che è tutt'uno con i personaggi e che la Bocca, grazie alle sue origini, rende perfettamente, con i suoi scrosci di pioggia, il sole che torna più limpido, le notti stellate, il freddo pungente, il ritorno delle stagioni, il profumo del fieno. Non sono notazioni tipiche di un canto elegiaco, fine a se stesso, ma la montagna accompagna il racconto, si fa essa stessa personaggio, entra nella storia e la determina. Tutto questo, unito a una scrittura tersa e scorrevole, a qualche piccolo colpo di scena al punto giusto, fa di "Quando la montagna era nostra" un libro piacevole, da inserire nella lista delle belle uscite del 2020 libresco, un romanzo da consigliare.
Sabrina Miglio