Marcos y Marcos, 1992
Traduzione di Umberto Gandini
pp. 60
(attualmente disponibile solo sul mercato dell'usato)
Quella del Minotauro, nel labirinto di specchi di cui è prigioniero, è l’esperienza di un progressivo riconoscimento, quindi di fatto un percorso di crescita: inizialmente non capisce, spaesato, chi siano quelle creature accovacciate di cui ignora la natura e che lo fissano con insistenza. Poco alla volta, la creatura, supremamente ingenua, arriva a un primo stadio di identificazione: esiste un essere che è lui, tale e quale appare nello specchio. Intorno a quell’essere, però, ci sono molti altri essere uguali (“ritenne di essere un essere fra molti esseri uguali”): ecco che subentra allora un’esperienza di identificazione con la moltitudine, che dà sicurezza nella certezza di una conformità, di una adeguatezza. Lui non è diverso, se gli altri sono come lui. E il fatto che tutti facciano esattamente quello che fa lui, che replichino le sue mosse, che aderiscano alla sua volontà lo rende baldanzoso, sicuro: non più membro di una comunità, ma quasi un eroe, quasi un dio, idolatrato e imitato. La sua percezione, basata su impressioni, lampi d’immagine, più che su pensieri articolati, non può che contrastare con quella di chi non gli somiglia: la fanciulla, nuda, che assiste alla sua folle danza osserva orripilata e al contempo affascinata la sua natura ibrida, la contaminazione delle sue forme – da un lato uomo, dall’altro la bestia. Nello sguardo ricambiato con questa giovane donna (anche lei una e plurima), il mostro scopre con l’impatto di una rivelazione una diversa verità: “capiva improvvisamente che c’era qualcosa d’altro oltre ai minotauri. Il suo mondo s’era raddoppiato”. Come sempre, in Dürrenmatt la storia, o in questo caso il mito, si caricano di valori esistenziali: il labirinto diventa palestra di vita, il breve apologo un racconto di formazione, in cui l’inseguimento tra il Minotauro e la fanciulla si fa emblema del desiderio inappagato e continuamente ricercato.
Il gioco degli specchi si riflette anche sulla forma narrativa, che si fa formulare, anaforica, che rispecchia continuamente se stessa. Il Minotauro rappresenta la violenza, ma anche la suprema innocenza: non sa la vita e la morte, vive di sensazioni intense e immediate, di reazioni agli eventi del mondo che lo circonda. È pura meraviglia, pura felicità, puro sconcerto. Eppure attraverso l’esperienza, come il bambino nuovo al mondo, accresce il suo bagaglio di conoscenza.
È l’uomo a insegnare il male al Minotauro, con la sua ferocia gratuita. Il mostro scambia l’attacco del nemico per una danza, e la replica: “danzava la gioia di non essere più solo [...]. Esprimeva solo gaiezza, gentilezza, leggerezza, tenerezza ancora”. Ma gli umani di lui vedono solo l’abominio, le corna ricurve, il pelo impastato sotto il suo muso animale. Nel tradimento dei colpi inflitti nel culmine della danza, o nel centro di un abbraccio, è l’umano ad apparire mostruoso, ben più del mostro stesso. Quanto al Minotauro, con il dolore, con il sangue versato e progressivamente riconosciuto come proprio, subentrano in lui lo spaesamento e poi la rabbia. La sua fiducia si muta in una furia distruttrice, il sospetto coinvolge tutti, anche gli altri minotauri, traditori, che reagiscono con l’attacco ai suoi attacchi.
Come un lampo arriva la comprensione. Con la comprensione, la percezione della propria condanna, della propria “anormalità”:
Arretrò, e così fece la sua immagine, e un po’ per volta scoprì di essere di fronte a se stesso. Cercò di fuggire ma ovunque si volgesse si trovava sempre si fronte a se stesso, era murato da se stesso, era ovunque se stesso, ininterrottamente se stesso, rispecchiato all’infinito nel labirinto. Avvertì che non esistevano tanti minotauri, ma un minotauro solo, che esisteva un solo essere quale egli era, [...] che egli era l’unico, l’escluso e rinchiuso per sempre [...]. L’esistenza d’uno come lui non era consentita dal confine posto fra animale e uomo e fra uomo e dei, affinché il mondo conservi il suo ordine e non divenga labirinto per ricadere nel caos da cui era scaturito.
Quella descritta da Dürrenmatt è una tragedia di infinita solitudine, eppure alla fine della storia che prosegue com’è noto, in un rovesciamento – questo sì inedito –, non è Teseo, nella insensatezza del suo gesto, l’eroe trionfatore, ma il Minotauro stesso, che ha vinto a suo modo sugli specchi e suoi loro inganni, per approdare a una intuizione di sé che all’uomo resta, forse, sconosciuta.
Carolina Pernigo
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