L’ippocampo, 2012
pp. 256
€ 39,90
C’è chi soffre del mal d’Africa, chi del mal d’America... io soffro il mal d’Islanda, quella sensazione di nostalgia che attraversa sottile le giornate, in attesa di un ritorno, di un ricongiungimento, che è sempre posposto, che forse non avverrà mai. C’è sempre, in chi prova queste sensazioni, un certo piacere sadico nell’acuire, ma anche nell’accudire, la propria ferita aperta, attraverso uno sfogliare compulsivo di foto sempre più lontane nel tempo, il ricercare una certa letteratura che ripercorra i passi compiuti, o rievochi le emozioni un tempo vissute (nel mio caso, l’Islanda è indiscutibilmente Jón Kalmann Stefánsson), l’ascoltare canzoni suggestive (Of Monsters and Men, come sopra), lo sperimentare esperienze artistiche immersive.
Ebbene, il volume de L’ippocampo dedicato a questo paese affascinante rappresenta un compendio di tutte le sensazioni avvertite, mi catapulta di nuovo là, in una terra che ha i colori, i caratteri, la materia dell’alba dei tempi. Lo fa con la forza delle immagini e delle testimonianze. Lo fa con il grande formato, perfetto per dimenticarsi cosa c’è intorno (il salotto di casa, che sembra sempre più angusto se accostato nella mente ai ghiacciai o alle distese desolate di pietra lavica). Riesce a tal punto, questo libro illustrato, a rappresentare quel che è l’Islanda, che la saudade (mi si perdoni l’incongrua interferenza linguistico-culturale) coglierà anche chi non vi è (ancora) mai stato. Perché l’Islanda è terra di fuoco, di roccia, di ghiaccio. Perché il trionfo degli elementi riporta alla Genesi, al tempo della creazione del mondo, che lì pare ancora in divenire. L’Islanda è davvero incompiuta, come suggerisce il titolo dell’opera, perché non è mai uguale a se stessa, e perché ogni cambiamento può essere stravolgimento, o al contrario infinita e impercettibile mutazione, e i due aspetti apparentemente contraddittori contribuiscono invece a definire un paese complesso, inafferrabile, in quanto privo di vie di mezzo.
La vera grandezza, la vera libertà io le ho conosciute lì, in pochi giorni. E le ritrovo nelle fotografie di Olivier Grunewald, da cui si evince la stessa passione per la forza sovrumana di una natura indomabile, ma anche per il dettaglio che si fa forma astratta, geometrica, evocativa nella sua irriducibilità all’elemento paesaggistico. Le ritrovo anche nelle parole di Bernadette Gilbertas, duttili come il panorama che descrive nella sua varietà, puntuali nella ricostruzione della storia spesso travagliata della nazione, suggestive nel mostrare il rapporto unico che, sull’isola, lega l’uomo all’ambiente circostante. “Gli abitanti di una terra così grezza e selvaggia sono davvero più vicini alla natura di qualsiasi altro popolo? È la natura ad aver ispirato loro un senso artistico?”, si chiede l’autrice. La risposta si può trovare soltanto nelle parole degli islandesi stessi, che vengono quindi chiamati a raccontarsi, ognuno con il proprio bagaglio esperienziale che afferisce a un contesto diverso: ci sono una scrittrice, un geofisico, una guida, una coppia di contadini, e così via, in una varietà umana che ben rappresenta le molte sfaccettature dell’anima islandese.
Questa seconda parte del volume si rivela necessario complemento alla precedente, perché mostra dell’isola quella dimensione antropica che restava prima totalmente esclusa, nel trionfo dei paesaggi, delle eruzioni vulcaniche, delle esplosioni dei geyser, dell’imponenza delle cascate. Gli uomini che la abitano sono i custodi della memoria, gli osservatori della bellezza, i rivelatori delle criticità, i cantori delle tradizioni, ma anche coloro che, con grande concretezza, osservano l’evoluzione del Paese, ne denunciano i problemi economici e materiali e propongono soluzioni operative, nate da una personale conoscenza del territorio e delle sue specificità.
“La Natura ha forgiato il popolo islandese, onnipresente e cangiante al contempo. L’uomo ha dovuto adattarsi. Noi sappiamo ancora maledettamente adeguarci ai cambiamenti, è una forma di fatalismo. La nostra identità, piuttosto che la nostra anima, è adattabilità ai mutamenti. Fin dal nostro arrivo sull’isola ne abbiamo presi di colpi, ma ci siamo sempre rialzati. Si trovano soluzioni, si fa altrimenti con i mezzi di bordo. Il motto che forse meglio ci definisce è Petta reddast!, ovvero “Arrangiamoci!””, così rivela un pescatore all’intervistatrice. Ben lungi dallo scoraggiare il viaggiatore nostalgico, le sue parole riaccendono il desiderio di tornare. In un periodo in cui ogni spostamento è precluso, grazie all’esplorazione vibrante di Grunewald e Gilbertas si può soddisfare il proprio desiderio almeno tra le pagine, riempiendosi gli occhi di una bellezza che, pur mediata, arriva comunque a destinazione forte e chiara.
Carolina Pernigo