Piemme, 2012
pp. 486
€ 13,00 (cartaceo)
€ 6,99 (ebook)
Titolo originale:
The Tender Bar
Traduzione di Annalisa Carena
Traduzione di Annalisa Carena
Questo è un romanzo a cui bisogna dar fiducia: ci vuole un po’ per avvicinarsi al personaggio, per prendere confidenza con il suo modo di pensare, con la sua continua ricerca di punti di riferimento, soprattutto maschili. Col suo indugiare nel dettaglio narrativo che pare irrilevante, e che solo nel tempo trova una sua precisa collocazione, rivela il suo significato. Con la sua celebrazione iperbolica delle avventure e dei personaggi che ruotano intorno al bar, sempre filtrati attraverso lo sguardo ammirato dell’infanzia e della prima giovinezza. Bambino e poi ragazzino ansioso, sempre proiettato in un futuro potenzialmente angoscioso, pronto a farsi carico di tutte le preoccupazioni del mondo, specie quelle che non competerebbero a lui (in particolare la cura della madre, che da tutti gli viene sempre imputata come dovere), JR trova nel Dickens (poi ribattezzato Publicans) un rifugio accogliente, un posto da cui è possibile tener fuori le delusioni del quotidiano, le frustrazioni dei sogni irrealizzati o irrealizzabili, un luogo in cui sentirsi sempre accolti, ma anche a tratti un alibi per non vivere davvero. L’esistenza del ragazzo si muove sempre in bilico tra questi due poli, tra slancio e fallimento, tra proiezioni in avanti e continui ritorni al punto di partenza, nella fatiscente casa del nonno, o al bancone dietro il quale si ritrova la caustica, ma rassicurante figura dello zio Charlie.
A sabotare JR c’è la grande presenza-assenza del padre, pervenuto soltanto attraverso i racconti opportunamente censurati della madre o l’eco della sua Voce che riecheggia dalla radio (e che verrà sostituita in età adulta da quella più autorevole di Frank Sinatra). La ricerca di modelli educativi in sostituzione al genitore mancante diventa anche un percorso di accesso al mondo della parola e della lettura: contribuiscono il nonno, delirante e grossolano, spesso violento, ma grande appassionato del linguaggio; lo zio Chas, scommettitore e grande bevitore, che con la sua parlata fluente e i suoi amici fidati gli offre un primo accesso al mondo degli uomini; i librai timidi Bill e Budd, maestri improbabili e generosi. Il giovane JR sa che la lingua è la via per appropriarsi del mondo, ma fatica a trovare la sua misura (prova ne sono le liste di “paroloni” che continuamente cerca di usare e che falsano la sua voce con esiti grotteschi, ostacolando dapprima i suoi buoni esiti a Yale, poi il suo apprendistato al New York Times). Solo progressivamente, grazie ad alcune buone indicazioni, il ragazzo imparerà a riconoscere il giusto mezzo: “Cerca di non pensare alle parole. Non intestardirti sulla frase perfetta. Non esiste. La scrittura è un’opera di congettura. Ogni frase è un’ipotesi sensata, tua e del lettore” (p. 263). La stessa scrittura di Moehringer ci mostra l’esito felice del suo percorso, essendo piana e precisa, sempre puntuale nel descrivere cose e sentimenti.
Inizialmente, i libri e il bar paiono elementi ugualmente necessari alla formazione dell’io narrante, che prende appunti al Publicans come durante le lezioni del professor Lucifero a Yale: “Provavo la stessa euforia che avevo sperimentato leggendo l’Iliade. Anzi, il bar e il poema si completavano, come due opere complementari. erano entrambi fonte di verità senza tempo sugli uomini” (p. 234). Il problema inizia quando, assecondando un senso di inadeguatezza continuamente autoalimentato, JR inizia a preferire il bar all’aula, rischiando di compromettere la propria carriera e la propria intera vita.
L’aspetto che avvicina sempre di più il lettore al narratore è la sua schietta imperfezione: la tendenza sistematica alle scelte sbagliate, alle relazioni insane, eppure anche la capacità di accogliere gli incontri fortunati, di rischiare quando ne vale la pena nonostante la paura del fallimento, l’ironia che riesce a disinnescare anche le situazioni più disastrose.
In uno scritto in cui si percepisce un taglio prettamente maschile, ciò che colpisce è che il protagonista, sempre alla ricerca di padri putativi ed esempi di mascolinità, per uscire dallo stallo autodistruttivo in cui si è trasformata la sua esistenza, dovrà riconoscere che la vera figura di riferimento della sua esistenza è sua madre: “capii che lei incarnava tutte le virtù che io associavo alla virilità: solidità, perseveranza, determinazione, affidabilità, onestà, integrità e coraggio” (p. 458). La consapevolezza seguente, e inevitabile, è che per diventare grande davvero bisogna lasciare il bar, smettere di bere, tagliare col passato (“bere e provarci erano due impulsi contrapposti, e bloccando il primo avevo automaticamente attivato l’altro”, p. 474).
Il bar delle grandi speranze è un lungo romanzo di formazione che passa attraverso la ricerca di
un’identità sempre sfuggente, come si evince dall’ossessione dell’autore
per i nomi e i soprannomi, che si succedono numerosissimi nel corso della
narrazione. Nonostante la brusca accelerata sul finale, J.R. Moehringer non ha
paura di mostrarsi al lettore, di tratteggiare senza ritrosie un quadro preciso
di tutto ciò che l’ha spinto a diventare lo scrittore che è.
Carolina Pernigo