In equilibrio sul petalo di una rosa selvatica: "Thérèse e Isabelle" di Violette Leduc

leduc-thérèse-e-isabelle-neri-pozza


Thérèse e Isabelle

di Violette Leduc
Neri Pozza, novembre 2020

Traduzione di Adriano Spatola e Laura Cimenti 

pp. 130 
€ 16,00 (cartaceo) 
€ 7,99 (e-book) 


Il giorno finiva, la mia stanza sfumava, piume volavano via dalle labbra della mia innamorata assente. La notte cominciava il suo turno. La notte: la nostra coperta di cigno. La notte: il nostro baldacchino di gabbiani. (p. 102) 
Thérèse e Isabelle, due giovani amanti ai confini del sogno. Si conoscono in un collegio e sono subito travolte da un amore passionale. Passano le loro giornate in modo monotono e disciplinato, si svegliano ogni mattina alla stessa ora, si ritrovano nel refettorio, consumano i pasti nella sala comune, studiano nella biblioteca, lucidano le scarpe in un locale freddo come la pietra delle sue pareti. Ed è proprio in questo locale che le due giovani si incontrano per la prima volta. All’inizio è il sentimento dell’odio che la fa da padrone, perché Thérèse “detesta” Isabelle. Percepisce la sua arroganza, la sua superiorità, l’arrendevolezza con cui affronta la vita nel collegio, lei, la migliore allieva. Thérèse è diversa, si sente esclusa da quel mondo, sa che presto sua madre la riporterà da lei, se si annoierà troppo e sentirà il bisogno della sua bambina. Thérèse però non appartiene più alla madre, inizia ad appartenere a Isabelle, notte dopo notte. Costruiscono un amore che si consuma solamente col favore delle tenebre, diffidenti di chi invece usa la notte per dormire, incapaci di cogliere la magia di ciò che accade sotto il bagliore della luna: “Le allieve e la sorvegliante si saziano d’ombra e d’assenza. Io sono sveglia, diffido” (p. 30). La fuga da quel mondo può però esistere solamente nell’oscurità, lontana dagli occhi attenti e vigili delle sorveglianti, perché “il giorno prendeva la notte, il giorno cancellava il nostro matrimonio, Isabelle si addormentava” (p. 116). 

Inizialmente si danno del voi, e ricoprono il loro affetto di un velo di rispetto che sembra arrivato da un’altra epoca. Si crea dunque un’intimità del corpo che non trova una corrispondenza nella parola, perché le parole fanno appassire i sentimenti, spezzando l’incantesimo degli sguardi. Il voi si trasforma poi in tu, man mano che l’intimità le avvolge sempre di più. Quest’urgenza di essere amata viene espressa da Thérèse con queste parole: “Ho capito prima di incontrarla che mi era mancata”. 

Il romanzo, di una delicatezza che lascia il lettore letteralmente senza parole, è un susseguirsi di notti, una dopo l’altra, in cui viene descritta la necessità di sentire i propri corpi intrecciati, in un’unione sigillata da un bacio umido che le porta lontano da quel collegio dove l’ordine e la monotonia annebbiano loro le menti. Le giovani decidono di sovvertire quest’ordine, affidando all’improvvisazione e alla sorpresa le redini del loro amore. 
Isabelle mi tirò a sé, mi distese di traverso sul piumino, mi sollevò, mi prese tra le braccia: mi tirava fuori da un mondo dove non avevo vissuto per precipitarmi in un mondo dove ancora non vivevo. (p. 22). 
Vediamo la loro storia filtrata unicamente attraverso lo sguardo di Thérèse, per la quale esiste soltanto Isabelle, e tutti gli altri intorno sembrano fantasmi, e infatti proprio così vengono definite le altre ragazze del collegio. 

Il ritmo del romanzo è quello di un cuore pulsante, veloce e assordante quando si amano, lento e pigro nell’abitudine della luce del giorno. 

Definirei questo magistrale esempio di letteratura erotica, più che un romanzo, una lunga poesia. Una poesia che è un inno alla bellezza, che ci incanta e ci ferisce allo stesso tempo. Quella di Violette Leduc è una scrittura che fa male perché troppo bella, troppo perfetta, sentiamo in qualche modo di non meritare la bellezza che descrive, non ci apparterrà mai. È una bellezza che ritroviamo solo nella letteratura, nella cristallizzazione delle parole. Lo stile risulta chiarissimo, solo apparentemente nudo. Cela invece una ricchezza metaforica che evoca in noi immagini nitide, che possiamo realmente sentire. Violette Leduc opera una scelta chirurgica delle parole, lasciando il lettore incredulo e scosso: come può esistere un’espressione così spoglia e al tempo stesso contenere tutto un universo poetico? Gli esempi più belli della magia della penna dell’autrice ci vengono regalati nelle descrizioni che Thérèse fa di Isabelle: “Isabelle veniva dal paese delle meteore, dei cataclismi, delle catastrofi, delle devastazioni. La sua voce era liberazione, il futuro. Isabelle mi portava il respiro del Mare del Nord” (p. 37). Questo legame con la natura arcaica è ricorrente nella narrazione, e viene speso utilizzato come metafora dell’amore delle due giovani. Al tocco di Isabelle, Thérèse si sente di nascere alla primavera: “Nascevo alla primavera con lo stormire del lillà sotto la pelle” (p. 28), e “un fiore sbocciò da ogni poro della mia pelle”. Si tratta di un magnifico elogio alla natura da cui abbiamo origine: 
Non posso dirle che anche a distanza il suo braccio sa di mughetto; la sua treccia profuma del pane sfornato a mezzogiorno; le sue gote del sambuco dopo l’acquazzone; le mie labbra del sale delle paludi di Noirmoutier; la sua gola del profumo tenebroso del ribes nero (p. 34). 
Capiamo che l’amore delle due ragazze è del tutto giovane, ingenuo, le amanti non sanno minimamente cosa le attenda alle porte del giorno, lontano dal loro nido notturno d’amore. Come dice Sandra Petrignani nella bella introduzione al romanzo, Thérèse e Isabelle “Non sanno ancora, nella sospensione che inconsciamente ma non per caso impongono al sonno, ciò che, al risveglio, attende puntuale gli amanti” (p. 11). Questa introduzione è molto utile per contestualizzare il romanzo, in quanto la storia delle due ragazze nasce in realtà dall’esperienza autobiografica dell’autrice, che davvero, in collegio, si innamorò di una ragazza. Fu l’unico amore che Violette Leduc, protégée di Simone de Beauvoir, sentì come pienamente corrisposto e privo di dolore. 

Questo è uno di quei romanzi che andrebbero letti almeno una volta nella vita, per la qualità della scrittura, poesia pura che può esistere solo nella magia della letteratura. Quella magia che ci porta a domandarci quanto duri in realtà un romanzo, se il tempo di una notte o un’eternità intera. L’incantesimo si rompe bruscamente alla fine, lasciandoci l’amaro in bocca, ma forse è giusto così, perché, come affermava Shakespeare: “Le gioie violente hanno violenta fine, e muoiono nel loro trionfo, come il fuoco e la polvere da sparo, che si distruggono al primo bacio” (Romeo e Giulietta).


Lidia Tecchiati