di Stelio Mattioni
Cliquot Edizioni, dicembre 2020
pp. 164
€ 16,00 (cartaceo)
€ 5,99 (e-book)
Un uomo racconta, da adulto, una strana vicenda capitatagli da ragazzo. Figlio di una famiglia borghese come tante, nato e cresciuto a Trieste, il protagonista, all’epoca della narrazione uno studente, passa volentieri il suo tempo dalla zia Francesca, dove la madre lo invita caldamente ad andare a mangiare, troppo presa dai suoi impegni in società per potersi occupare dei figli ormai grandi. Il padre, un uomo austero e severo, chiuso nel suo mondo, cerca di imporre il suo modo di vivere ai figli e alla moglie, ottenendo come unico risultato il loro progressivo allontanamento. Il fratello Carlo, avvocato di certo non per vocazione, cerca in ogni modo di trasformare l’avvenimento più banale in una causa da portare in tribunale, dove poter finalmente mostrare la sua inesistente capacità in materia giuridica. E infine la sorella Nerina, che vive a Roma, ci viene presentata come una profittatrice, che torna dalla sua famiglia solo quando ha bisogno di aiuto economico. Sposata con un uomo di colore e con un figlio piccolo, di nome Cirillo, la donna viene vista come una disgrazia per la famiglia, che a fatica accetta la presenza di una persona di colore in casa sua. È in questo ambiente famigliare un po’ oppressivo ed egoista che il protagonista, di cui non conosciamo il nome, cresce e si forma. Si trova però più a suo agio nella casa della zia, dal cui giardino può perdersi a studiare o semplicemente osservare in lontananza il sottile confine tra cielo e mare, che nelle giornate più soleggiate sembra quasi non esistere.
Fino a qui, sembra una storia ordinaria come tante altre, se non fosse che un giorno la vita del ragazzo prende una piega del tutto differente. Una storia realistica, magicamente sconvolta da un elemento fantastico, che frena il tempo della monotonia, per lasciare spazio a quello dello straordinario:
Quando a un tratto, non saprei dire in che modo, avvertii una presenza estranea, che non riguardava la casa, non riguardava il resto circostante, riguardava unicamente me. Alzai gli occhi, e il cielo era color arancione. La cosa non mi sorprese più di tanto. Quello che mi colpì fu una figura bianca che scopersi subito dopo, e che non solo era più bianca di ogni altra cosa che potessi scorgere d’intorno, ma inoltre circonfusa dello stesso colore del cielo, e soprattutto viva e vicinissima, nonostante la distanza. (p. 20)
È questo il momento in cui gli appare per la prima volta Alma, e da quel giorno la sua vita non seguirà più l’ordine prestabilito. Il protagonista inizia a rincorrere costantemente Alma, perché quel giorno, dopo un breve dialogo tra i due, la figura bianca svanisce nello stesso modo in cui era comparsa. In seguito, Alma gli apparirà ancora, assumendo di volta in volta sembianze differenti, in luoghi di Trieste anch’essi sempre diversi. Nonostante ciò, il protagonista non nutre dubbio alcuno: la ragazza che scorge è sempre Alma. Il timore di perderla lo porta quasi ad aver paura di rivederla, e ciò non fa che aumentare gli interrogativi che si pone giorno dopo giorno. I nodi della sua angoscia si sciolgono e si riformano per le vie di Trieste, maniacalmente descritte, tanto che al lettore sembra di seguire fisicamente il giovane, perdendosi in un labirinto infinito da cui pare non esservi uscita. Ciò che ne risulta è una mappa geografica commossa e poetica di Trieste, in cui il protagonista ritrova pezzi di se stesso, mentre cerca di capire se Alma esiste realmente o se è solo figlia di un sogno. Questo girovagare per la città ricorda un po’ la condizione baudelairiana di flâneur, in cui senza fretta si lascia che le emozioni affiorino alla vista del paesaggio circostante.
Alma gli appare anche in sogno, è la sua ossessione, ma più si avvicina a lei, più questa gli sfugge. Le circostanze in cui la incontra e si scambiano qualche parola o sguardo sono così strane e surreali da pensare che si verifichino nell’atmosfera rarefatta di un sogno, piuttosto che nella realtà tangibile. La domanda che accompagna tutta la lettura del romanzo è proprio questa: sogno o realtà? Una domanda a cui forse non è possibile dare una risposta. Il giovane, infatti, si interroga spesso: “Che cosa provavo? Prima che trovassi la risposta, sparì.” (p. 44). Alma è sfuggente, mutevole, lontana. È forse metafora della vita stessa, cui cerchiamo, soprattutto durante la giovane età, di dare un senso, ma più ci sforziamo, meno riusciamo in questo nostro intento. La storia narrata dal protagonista è la sua storia personale, ma leggendola capiamo che in realtà essa è universale, la storia di ogni uomo che cerca di formare la propria identità, e di capire il senso profondo della vita, anche in relazione all’abbandono del “nido” e all’ingresso nella vita adulta. Le diverse sembianze assunte da Alma potrebbero così rappresentare la molteplicità delle risposte che possiamo formulare quando ci interroghiamo sul senso della vita. Ritroviamo questa comune condizione esistenziale anche nelle parole della zia, che raccontando al nipote una vicenda successa decenni prima, gli confessa: “Ti ho raccontato la mia storia non perché tu scoprissi qualcosa in me, ma in te stesso. Senza saperlo, non vai in cerca d’altro!” (p. 54).
Con il suo romanzo Stelio Mattioni ci vuole donare un insegnamento di fondamentale importanza, e cioè che non esiste logica, non esistono pianificazioni: la vita è e basta, possiamo solo abbandonarci ad essa e “lasciarci vivere”. Questo romanzo, che si può iscrivere perfettamente nella corrente del realismo magico, è un invito a non rincorrere in modo folle la vita, perché tanto più cerchiamo di afferrarne il senso, tanto più esso svanisce: esattamente come successe con Alma sulla balaustrata della Scala dei Giganti.
E infine, all’autore va il merito di far conoscere intimamente al lettore la sua città, come se volesse a tutti i costi che guardassimo Trieste attraverso i suoi occhi innamorati. Trieste, che insieme alla figura evanescente di Alma rappresenta la condizione comune a tutti gli uomini. Nella prefazione al romanzo, sua figlia, Chiara Mattioni, afferma infatti che: “La Trieste di Mattioni è una città interiore, un labirinto di viuzze e edifici in cui si perde e che, nell’assenza di vie d’uscita, sembra rappresentare la condizione umana.” (p. 9).
Al lettore non resta nient’altro da fare che riconoscersi negli interrogativi e nell’inquietudine che turba il giovane animo del protagonista, e perdersi in quel labirinto triestino, a cui dobbiamo abbandonarci per imparare a lasciare andare, e a non preoccuparci se non riusciamo ancora a dare un senso alla nostra esistenza.
Lidia Tecchiati
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