La nave di Teseo, settembre 2020
pp. 153
€ 17,00 (cartaceo)
Sembrerebbe un uomo realizzato, l’architetto Fabbretto, narratore di questo breve romanzo giovanile di Mauro Covacich e ulteriore riflesso dell’io autoriale (si sente ancora una volta il “fabbro” che risuona nel cognome dello scrittore triestino, ma questa volta ridotto, sminuito, quasi a dire del fallimento esistenziale del personaggio). Al tempo in cui è ambientata la vicenda, Fabbretto è infatti un giovane rampante, ambizioso, ben inserito nella comunità, attivo nella vita politica di Pordenone, dove riveste il ruolo di assessore alle politiche sociali. Questa sua fama lo ha accompagnato negli anni, fino al presente da cui lui racconta. È in questo presente che può finalmente svelarsi: lui è infatti un professionista che non svolge la sua professione, e si porta dietro le frustrazioni di una carriera mancata (“Io che sognavo di diventare un celebre architetto ho gestito le assegnazioni delle case comunali”, p. 12). Ha sempre vissuto da solo, con il fedele cane Barney, esorcizzando i suoi demoni con lunghe corse serali. Perfetto personaggio pubblico, grazie alla sua capacità di rimasticare la verità prima di esporla all’esterno, di agire con pochi scrupoli e nessun pentimento, da troppo tempo si porta dietro un segreto di cui vuole liberarsi, qualcosa che ha a che vedere con un orribile delitto che ha avuto luogo undici anni prima nelle terre dei comboniani e che è stato archiviato senza soluzione. L’opera assume allora la forma di una lunga confessione al questore, senza peraltro che in questo ci sia alcun desiderio di redenzione:
Per ciò che sto per dire non chiedo a nessuno di capirmi, a nessuno chiedo perdono. [...] Credo [...] che il mondo marcirà da solo, lentamente, come una mela bacata, prima che qualcuno venga a giudicarci. Per quel che mi riguarda, voglio soltanto raccontare come sono andate le cose. (p. 14)
La compromissione di Fabbretto inizia quando due volontari dell’associazione Vitaviva si presentano nel suo ufficio per chiedergli di farsi promotore di un progetto costoso e azzardato: investire su un ex brigatista che ha elaborato una personale filosofia del ricircolo della materia che si potrebbe piegare a un piano di riciclaggio su larga scala (“Pensi, dottor Fabbretto, che bell’esempio per la città: un ex detenuto che si impegna per la salvaguardia dell’ambiente, un ex detenuto perfettamente integrato”, p. 24). Nel dispiegamento di retorica dei suoi ospiti, il narratore riconosce i segnali di pericolo, ma si fa incantare dai capelli rossi della volontaria Alessandra e lascia che il suo desiderio, la sua debolezza, prevalgano sul suo ufficio pubblico.
Poco importa che il pregiudicato, Achille Orante, detto Lama – non si capisce se per la lingua tagliente o per una sua insita violenza – sia sfacciato, volgare, anarchico, di fatto incontrollabile. Il suo primo incontro con Fabbretto è rovinoso e profetico. Convinto che per ottenere qualcosa sia necessario esigerlo, o prenderlo con la prepotenza, Lama diventa interlocutore impossibile, perché refrattario a qualsiasi indicazione, a qualsiasi regola. È sostenitore di una distorta teoria darwinista, dove la lotta per l’esistenza si mescola a una approssimativa filosofia del panta rei, a una celebrazione della mutevolezza del mondo e dell’ordine sociale. Fabbretto capisce di aver superato l’orlo di un abisso di cui ancora non conosce la profondità, ma sa che non gli è più possibile tornare indietro (né, d’altro canto, lo vorrebbe, perseguitato com’è dagli occhi gialli della volontaria, che mantiene nei suoi confronti un atteggiamento ambiguo e sfuggente): “Non avevo scampo, stavo giocando una partita già persa. Una volta ammessa pubblicamente la volontà di aiutarlo, ero diventato suo ostaggio” (p. 91).
Nella prosa tagliente di Covacich, Pordenone viene descritta come una piccola città che tiene molto alla conservazione dell’ordine, alla sua rispettabilità cattolico-borghese, che nasconde sotto il tappeto i grumi di malcontento, gli elementi di disturbo:
“Volete aiutarlo? Bloccatelo, perché ammucchiare cianfrusaglie sui marciapiedi per la gente normale non è lavorare. Gli parlerò io per farlo ragionare, intanto impeditegli di continuare: ogni suo movimento crea scompiglio, ogni sua parola sembra una minaccia e la gente si impaurisce.” (p. 86)
Il delitto cui si è fatto cenno nelle prime pagine viene posposto nella narrazione, in una dilazione continua che aumenta una tensione sottile e crescente. Quella che viene raccontata non è quindi la storia di un crimine, piuttosto quella di un lento sprofondare del protagonista in un baratro senza uscita di compromessi con la propria morale, di menzogne che si accumulano, di promesse vane che creano castelli di aspettative irrealizzabili:
In ufficio la situazione diventò via via più delicata. Erano quasi tutti a conoscenza del mio progetto. [...] Nelle sezioni di partito era peggio: ogni appoggio richiedeva assicurazioni che non riuscivo a garantire, ogni pacca sulla spalla, ogni stretta di mano mi imponeva una promessa, e io mentivo, mentivo senza il minimo pudore [...]. Tutti mi osservavano precipitare ma pensavano che stessi salendo. Solo io avrei potuto vedere le pareti dello strapiombo scorrere veloci, dico avrei potuto perché, quando mi succedeva, chiudevo subito gli occhi. (p. 93)
Tra le rughe che appaiono e si fanno sempre più evidenti e un malessere crescente, anche la sua attrazione per Alessandra si fa ossessione, malattia dell’anima, l’unghiata dolorosa che gli tormenta il fegato. Intorno al deposito abbandonato dei bus, occupato abusivamente ben prima delle concessioni, inizia a ruotare tutta la vita ribelle della zona, una piccola gioventù in cerca di evasione e occasioni di sfogo. Gli equilibri consolidati iniziano a essere rovesciati. Solo Lama pare imperturbato e imperturbabile: “In una situazione di tale turbinoso movimento Lama stava fermo. Il suo tempo era quello dell’attesa” (p. 101). Invece che avviare il suo progetto di riciclaggio degli scarti, lui diventa agente del caos:
Lama era una spugna immonda, una spugna immonda che assorbiva il bene e lo trasformava in male, che accettava ogni cosa solo per farla diventare lurida e dannosa. [...] Anziché riciclare, aveva invertito il ciclo naturale per accelerare la distruzione, perché il mondo finisse prima. (p. 103)
Fabbretto sembra essere l’unico a rendersi conto del disastro che incombe, mentre il progetto inizia a sgretolarglisi tra le mani, infrangendosi contro l’intransigenza delirante del pregiudicato e la pazienza sempre minore degli abitanti del quartiere, che mal tollerano il deposito ormai ridotto a una discarica a cielo aperto. Nell’approssimarsi dell’acme romanzesco, ecco che arriva brutale la rivelazione tanto attesa, e si svela così la polisemia presente nel titolo. Perché il personaggio di Lama, nel suo integralismo ostinato, nel suo idealismo vaneggiante, ferisce in profondità la comunità cittadina; il colpo di lama è allora quello che si abbatte su Pordenone, spaccandola e dividendola, infrangendo la sua quiete apparente; il colpo di lama è quello che separa il bene dal male, ricordandoci però quanto è difficile stabilire chi stia da una parte, chi dall’altra; il colpo di lama è quello del delitto, di cui si possono intuire i moventi profondi, ma non la scintilla, non le linee di realizzazione, che colgono il lettore completamente di sorpresa.
Benché preceda di molto i suoi più famosi, questo romanzo si legge con grande interesse, non solo perché conferma la forza della scrittura di Mauro Covacich, ma anche perché vi si possono leggere sottotraccia quei temi cari alla sua narrativa che vengono ripresi e sviluppati nelle opere della piena maturità, qui calati in un contesto noir che risulta pienamente credibile e tiene il pubblico con il fiato sospeso fino alle ultime pagine.
Carolina Pernigo
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