di Cees Nooteboom
Iperborea, novembre 2020
Con testo a fronte.
Traduzione di Fulvio Ferrari
pp. 96
11,00 € (cartaceo)
9,99 € (ebook)
Ne abbiamo viste tante in questi mesi. Stanchezza, esasperazione, paura, insofferenza: sentimenti che hanno attraversato e attraversano il nostro cervello almeno una volta al giorno, sentimenti che spossano e che ci fanno sentire esausti. Il ricordo del primo lockdown che sembrava ormai lontano. Il breve respiro estivo di spensieratezza apparentemente legittimata che viene poi brutalmente cassato da una nuova ondata e dal ritorno della fiumana di problemi e brutte immagini già vissute in primavera. Perché sto scrivendo questo, vi chiederete? Un riassunto iterativo di situazioni reali e comunemente vissute, ma che fa da ponte al testo di cui vi parlo oggi: Addio, la raccolta di poesie dell’autore olandese Cees Nooteboom pubblicato da poco da Iperborea. Il sottotitolo, Poesia ai tempi del virus, potrebbe collocarlo tra quei cosiddetti instant books tanto in voga negli ultimi mesi, che hanno soddisfatto il bisogno degli autori di esprimere e condividere le loro impressioni sul presente e, di rimando, dei lettori, che hanno accolto, rimaneggiato e immagazzinato le riflessioni ricevute attraverso il filtro della propria individualità.
Poeta, giornalista, narratore di cronache di viaggio e di finzione, la voce di Cees Nooteboom risuona chiara e distinta in questa breve raccolta di versi contemporanei. In una forma poetica simile un sonetto spezzato e che concede all’ultima quartina solamente un verso solitario, l’autore racconta del presente, delle visioni del passato e dell’aspettativa discendente del futuro. Questa declinazione temporale è accompagnata dalla presenza di immagini vive, dinamiche e al contempo statiche e contemplative. La voce narrante dipinge presenze umane e naturali: un uomo in un giardino d’inverno che riflette sul senso e sulla fine, comparando involontariamente la propria immobile caducità alla natura in movimento costante e irrefrenabile. Osserva l’albero di fichi ormai quasi spoglio, capovolgendo quella simbologia che Sylvia Plath aveva costruito nel suo romanzo La campana di vetro; l’albero di fico, i cui frutti maturi erano promessa di “un futuro meraviglioso”, è per l’osservatore di Nooteboom un desolante segno di decadenza inspiegata e ulteriore rassegnazione. Ciononostante, l’uomo “non fugge, resta. / Questo lo si deve sopportare, fa parte / del compito” (p. 35). Il poeta riporta poi nei suoi versi la visione della guerra: l’immagine della madre e del padre, che la guerra non ha risparmiato, vittime di un mondo che è “una nuvola / senza regole […] che tanto divora” (p. 15). L’Io poetico viaggia nello spazio della memoria, nella contemplazione degli sguardi altrui e del proprio, studiando la ripercussione dell’esterno sulla propria interiorità.
Il mio strano territorio. I miei amici non hanno
bocche, ma punte e braccia ad angolo,
sorvegliano i muri, aspettano con me le parole
che vengono a farsi rinchiudere
in qualcosa che è una forma. Ho percorso
il mondo per arrivare qui. Loro
sono la meta che non conoscevo.
I loro nomi sono strani e musicali,
le loro forme dentellate, sanno molte più cose
di me, raccontano se stessi
nelle loro forme, ma restano all'interno,
nostro dialogo è il mio guardare
sguardo come poesia.
(p. 23, grassetto mio)
Guida nel viaggio del poeta nel proprio Io è il ricordo, al quale viene data forma attraverso la riflessione e lo sconforto per la scomparsa degli individui che hanno popolato il suo mondo. Non rifugge il pensiero della morte, bensì lo abbraccia, lo esplora, lo presenta a se stesso e al lettore dispiegandolo come un libro che deve necessariamente essere aperto.
Definendosi sempre più chiaramente, il percorso narrativo prende la forma del cammino, concetto tanto caro all’autore. Il vagabondare che ha caratterizzato la sua vita traspare senza fatica soprattutto dai componimenti della terza e ultima parte del testo. Nonostante le tante strade percorse, le esperienze accumulate, la saggezza che pensava di essersi portato con sé da esse, confusione, dubbio e solitudine permangono prepotenti nella vita mortale; “e tutti mi hanno detto addio, svoltando a sinistra / o a destra, sono scomparsi come spettri, ognuno solo con se stesso […] sentivo le loro voci lontane / suoni d’aria” (p. 67). Vacilla il pensiero dell’altro e si afferma quello della dissoluzione e della perdita del senso di appartenenza a un luogo, a una realtà reale e controllabile. L’Io prosegue il suo cammino, indugiando talvolta sui passi già compiuti, perseverando nel percorrere quelli rimasti con consapevolezza e vacuo senso di autodeterminazione.
Ora i miei piedi contano il cammino, lo so,
voltarsi è proibito. I miei passi misurano il tempo
una poesia oscura senza pari, un ritmo
che più lento non si può. Provo
a vedere di tutto come ho sempre
fatto. Lassù ancora quell'uccello
che fingeva di seguirmi, un ultimo
compagno di viaggio che sapeva dov'ero diretto,
conosceva la mia strada. Tante strade
ho percorso, sempre in cerca di qualcosa
che doveva trovarsi più lontano, che quando
infine scorgevo svaniva come un miraggio
o appariva come poesia.
(p. 75, grassetto mio).
La ricerca di quel qualcosa di inafferrabile di cui tanti prima di lui hanno cantato e scritto si riafferma anche nei versi di Nooteboom, che giungono alla deriva così come le intenzioni della voce narrante che li sta percorrendo. Onorando la natura umana, l’Io poetico si pone domande senza risposta, celebrando una vita vissuta con pienezza, osservando “il resto della distanza” (p. 79) in silenzio, trasmettendo un senso di pace.
C’è disperazione in questi versi? Di certo; così come solitudine, dubbio, irrequietezza, senso di abbandono, di incomprensione, di finitezza. Di congedo.
C’è rinascita? Forse.
Ad ogni lettore, il dono dell’interpretazione.
Lucrezia Bivona