di Paolo Nori
UTET, 2019
pp. 184
€ 15,00 (cartaceo)
€ 7,99 (ebook)
Il mondo si divide in due categorie: chi ama i
grandi romanzieri russi, e chi ama Il
Maestro e Margherita di Michail Afanas'evič Bulgakov.
Antiche voci riferiscono che difficilmente le due posizioni siano compatibili e
i puristi, del resto, negano che Bulgakov incarni realmente le caratteristiche
della narrativa russa.
Io, personalmente, pur non avendo alcuna
competenza specifica in materia di “russità”, ho letto e riletto Il Maestro e Margherita, mentre non sono
mai riuscita ad arrivare in fondo a Umiliati
e offesi, e Le notti bianche sì,
insomma, certo che però...
Sono anni che una mia collega e cara amica,
dostoevskiana convinta, viscerale oserei dire, prova a convincermi che non sarò mai felice nella mia vita finché
non avrò colmato questa mia lacuna. Non fa, così, che aumentare i miei
latenti sensi di colpa, senza peraltro riuscire a smuovermi di un millimetro
dalle mie resistenze interiori.
Questa lunga premessa serve a giustificare il mio
assoluto spaesamento nel trovare sotto l’albero di Natale il breve volume di
Paolo Nori. Sul titolo nulla da ridire. Quando il mio sguardo attonito è sceso
al sottotitolo, però, ho avuto un sussulto e mi sono chiesta perché, perché proprio io, cos’avevo
fatto di male per avere il carbone invece che i dolcetti. Chiaramente, ho
sorriso e pensato che non l’avrei mai nemmeno aperto. Invece già il 26 dicembre
ho dato una possibilità alla prima pagina e, per qualche meccanismo che
cercherò di spiegare, è stato poi inevitabile proseguire con la seconda, la
terza, la centesima.
Innanzitutto, bisogna chiarire cosa questo saggio
anticonvenzionale non è: non è davvero
un corso di letteratura russa. Non viene affrontata in maniera cronologica
e sistematica l’evoluzione del canone, non vengono esplorate le biografie dei
maggiori esponenti, non viene adottato per nessun argomento un approccio
didascalico e lineare.
È però
certamente “sintetico”, nella misura in cui da una serie di aneddoti,
divagazioni, riflessioni sparse si prova
a trarre una sintesi, talvolta fulminante, di quello che la letteratura russa
rappresenta, di quel che può offrire al lettore coraggioso che osi
avventurarvisi. È sintetico anche perché, più semplicemente, risulta
accessibile e non genera, con il suo volume, quel senso di timore reverenziale
misto a sconcerto che ti coglie di fronte a Guerra
e pace. Al contempo, la brevità dei capitoli è ingannevole: attraverso una
segmentazione del discorso in molte micro-sezioni, da un lato si induce il
fruitore a proseguire quasi forzosamente la lettura per capire dove il
ragionamento vuole condurlo, dall’altro si agevola quell’esercizio di straniamento e di rallentamento del riconoscimento che
pare essere alla base della stessa letteratura russa e che viene teorizzato
all’interno del volume. I grandi russi eccellono infatti in questa capacità di disvelare ciò che si crede di
conoscere, di sollecitare quello sguardo che rende nuove tutte le cose. Lo
stesso prova a fare Nori e, se da un lato quasi sicuramente una conoscenza
preliminare dell’argomento aiuterebbe una piena comprensione, dall’altro
l’ignoranza (intesa come mancanza più o meno abissale di tale conoscenza)
agevola una scoperta senza pregiudizi, innesca la curiosità.
Leggendo, matita alla mano, oltre a sottolineare
diversi passi densi di significato ho iniziato ad appuntarmi titoli di opere
che, chissà, forse dopotutto potrei provare ad affrontare. Merito di questo è
il tono affabulatorio dell’autore, che adotta uno stile volutamente medio, poco accademico, per raggiungere senza
spaventare, per avvicinare e avvincere anche il lettore più sospettoso.
L’esposizione si articola intorno a tre nuclei tematici principali: il potere,
l’amore e la vita quotidiana. Il percorso che conduce all’interno di queste
sezioni è ondivago, il tono colloquiale, senza che questo sminuisca in alcun
modo la profonda competenza dello
studioso. Nella storia che racconta critici e scrittori incrociano le loro
strade nella San Pietroburgo della seconda metà dell’Ottocento in uno di quei
momenti e di quei luoghi che sanciscono il trionfo culturale e artistico di un
paese (come la Parigi o la Vienna fin de
siècle). La letteratura russa pare dunque alimentata da relazioni e rapporti di interdipendenza tra
personaggi e opere.
Nori sceglie di non dirci cosa dovremmo provare
noi di fronte ai grandi romanzi russi, ma di raccontarci cosa ha provato lui,
cosa questi testi hanno fatto risuonare nella sua vita, e questo genera più
fascinazione di quanto potrebbe mai fare un qualsiasi trattato più oggettivo.
Ogni due pagine, avrei voluto mandare un messaggio alla mia amica dostoevskiana,
condividere con lei un passaggio, chiederle cosa pensava di qualcosa che avevo
appena letto. Ho creduto infatti di riconoscere nel saggio di Nori e finalmente
di capire davvero tante cose di cui lei aveva già provato a convincermi.
Perché quel che emerge dall’opera è che la
letteratura russa, se affrontata con cognizione, è in grado di cambiare la
prospettiva sul reale, è in grado di ferire più di ogni altra letteratura,
soddisfacendo quindi quello che è il suo compito fondamentale (anche Kafka, del
resto, si e ci chiedeva: “Se il libro che
stiamo leggendo non ci sveglia come un pugno che ci martella sul cranio, perché
dunque lo leggiamo?”). Perché della letteratura russa non si può essere
esperti, ma solo appassionati:
Koz’ma Prutkov [sosteneva che] “Nessuno abbraccia l’inabbracciabile”. [...] E io avevo pensato che [...] dei grandi scrittori come Gogol’, Dostoevskij, Tolstoj, Puškin e Checov nessuno poteva dirsi un esperto, eravamo tutti degli appassionati, perché si può essere esperti di tante cose, di cinema, di meccanica, di elettronica, di statistica, di raccolta differenziata, di agricoltura, di calcio, di pallacanestro, di sport estremi, di pattinaggio in linea, di tutto, tranne forse che di letteratura perché i grandi scrittori, i grandi libri, sono, forse, [...] inabbracciabili. (p. 20)
Perché, soprattutto, come ci ricorda l’autore, per scoprire la radura assolata,
il luogo di pace che si nasconde al centro del bosco, vale la pena di
attraversare le ramaglie e quindi, inevitabilmente, di sforzarsi di aprire il
romanzo russo e arrivare oltre pagina 39.
Carolina Pernigo