di Sam Shepard
La Nave di Teseo, 2020
Traduzione di Massimo Bocchiola
€ 16 (cartaceo)
Il 27 luglio 2017 Sam Shepard, scrittore, drammaturgo premio Pulitzer, attore, si spegneva a Midway, nel Kentucky, per complicanze dovute all’aggravarsi della Sla, la malattia che lo stava consumando. Un anno prima aveva iniziato a scrivere Spiare la prima persona, un libretto minuscolo eppure fondamentale nella bibliografia dell’autore non soltanto come testamento letterario e umano ma per la densità delle riflessioni contenute e la potenza della scrittura, così contrastante con il lento declino fisico che stava vivendo. Ha lavorato a questo testo fino all’ultimo, sostituendo la macchina da scrivere con ogni mezzo possibile, le registrazioni, la voce, gli appunti, le dettature. Ha concluso questo suo ultimo lavoro e lo ha revisionato fino a pochi giorni prima della scomparsa, affidandolo poi ai propri figli perché ne facessero la sua ultima opera postuma.
Mi ha molto colpito l’esigenza di Shepard, un autore prolifero e molto apprezzato da pubblico e critica, di scrivere e completare quest’ultima storia, che per sua natura porta in sé molto del momento in cui è stata composta e allo stesso tempo sa farsi anche altro. Immediatamente, per quegli strani accostamenti letterari che talvolta mi accompagnano, mi ha richiamato alla mente Le nostre anime di notte, l’ultima opera composta da Kent Haruf, autore lontanissimo da Shepard per stile e sensibilità narrativa: anche in quel caso l’urgenza della scrittura, lì la parola sempre più scarna, essenziale, ma in entrambi il desiderio di lasciare in quelle ultime pagine qualcosa che non fosse permeato soltanto dalla malinconia, dalla perdita, dalla rappresentazione della caducità umana, ma che ci fosse, in qualche modo, uno spiraglio di luce, di speranza. Nel testo di Shepard questo bagliore è poco evidente, forse, ma esiste e apre squarci sulla pagina.
La malinconia si intreccia alla tenerezza, il senso di perdita, la malattia e la morte si accompagnano al ricordo, a uno sguardo fino all’ultimo attento, capace di cogliere le contraddizioni di un Paese, le mancanze di un uomo.
Non sto cercando di dimostrarvi che ero il padre che credevate fossi quando eravate bambini. Ho fatto degli errori, ma non ho idea di quali siano stati. (p. 38)
È un uomo, un padre, che fa i conti con la propria morte, come lampi affiorano i ricordi della vita, i viaggi, il lavoro, la povertà degli inizi. Le distanze, le parole mancate, gli sbagli, si rincorrono tra le pagine, ma senza cercare assoluzione. Ed è la famiglia il cuore della riflessione letteraria e umana di Spiare la prima persona, gli inciampi, la perdita della moglie, i figli che si stringono intorno al padre per accompagnarlo in questi ultimi istanti. L’accudimento, i ruoli invertiti, ma ancora percepibile a tratti una certa distanza, che resta incolmabile.
È il ritratto intimo e assolutamente reale di un uomo, un padre, con le sue umanissime mancanze e colpe. Con una prosa lirica, che si apre a squarci di bellezza incredibile, Shepard regala al lettore scene di una profonda umanità, in un gioco meta letterario in cui il confine tra io narrante, autore, personaggi e punto di vista si fa sempre più labile. Uno sperimentalismo narrativo che accresce il valore di un testo così denso di spunti. Chi è l’uomo senza nome che dal portico di casa sua osserva e si interroga sulla vita di qualcuno simile a lui stesso, quel vecchio che vive nella casa di fronte accudito dalla famiglia? E chi stiamo guardando, davvero?
Non posso non avvertire una somiglianza tra lui e me. Non so di che si tratta. A volte sembra che siamo la stessa persona. Un gemello perduto. Le sopracciglia. Il mento. Il fremito di un orecchio. Le mani in tasca. Questo modo degli occhi, di sembrare insieme sicuri e smarriti. (p. 31)
Con queste ultime pagine Shepard si congeda dal suo pubblico, dai suoi lettori, lasciandoci moltissimi spunti e domande cui trovare da noi le risposte.
Di Debora Lambruschini