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#CriticaNera - Sono un duro. Se non ci credete, provate a fermarmi: "Addio, mia amata" di Raymond Chandler

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Addio, mia amata  di Raymond Chandler


Addio, mia amata
di Raymond Chandler
Adelphi, Fabula, 363
novembre 2020

Traduzione di Gianni Pannofino 

pp. 300

€ 20,00 (cartaceo)
€ 13,99 (eBook)


Philip Marlowe. Sarà certamente suonato perfetto all’orecchio di Raymond Chandler quel nome pulito e allegro, distintivo per il suo – all’epoca (1934, la prima apparizione nel racconto Il testimone) ancora in fasce – investigatore privato di una Los Angeles dalle insegne insonni e corrotte, e dai club fetidi animati da burlesque osceni e dall’odore di sudore rancido. 

Raymond Chandler è ancor oggi considerato da alcuni il padre, da altri – come Dennis Lehane, scrittore, sceneggiatore, produttore cinematografico, produttore televisivo e accademico statunitense – il figlio della penna noir dello scrittore Dashiell Hammett, e della narrativa hardboiled, in italiano, dal carattere duro.
«Se Hammet costituiva le fondamenta del noir americano, Chandler ne era lo sviluppo. Chandler ha dato al genere il suo primo maturo impianto filosofico; ha creato un codice etico, incarnato da Philip Marlowe, e da allora è stato sempre emulato; ha impresso con tale forza nel DNA del genere l’idea di un detective attaccato solo a due cose: i suoi princìpi e la sua città: è infatti impossibile immaginare la gran parte di questi protagonisti di storie gialle senza collegarli alle città da cui provengono» 
(Dennis Lehane, Corriere della Sera, 30 aprile 2009).

A-ah, direbbe Marlowe seduto come un vero (ex) poliziotto nel suo ufficio sull’Hollywood Boulevard, con una sigaretta tra indice e medio, o una pipa, per sembrare più riflessivo anche se non sta riflettendo, e con un drink stretto nella mano, pronto per essere consumato con la convinzione di un vero duro. «Mi sono seduto alla scrivania facendo stridere la poltroncina girevole come un vero professionista» (p. 146).

Mentre brinda al crimine contemplando un Rembrandt, sul calendario di quell’anno appeso alla parete, Philip Marlowe, tuttavia è spaventato dalle scorribande, dal valore di appena venticinque dollari, che lo attendono in giro per le avenue di Bay City, sulla carta Santa Monica nello stato della California, dove un pungente odore di salvia e gerani sale dal vento fresco dell’oceano. 
L’eroe chandeleriano, di un metro e ottanta e inconsapevolmente affascinante, è stretto nella morsa delle frasi brevi e concise della narrazione, convessa di metafore e similitudini bizzarre ma sorprendentemente efficaci: «Ogni tanto una finestra gialla sospesa nel buio, tutta sola, come l’ultima arancia rimasta» (p. 65).

Un cappello, un cappotto e una pistola è tutto ciò che gli serve, purché si eviti il lavoro salariato delle divise all’opera con uno stuzzicadenti tra i denti, e impegnate a sfregare fiammiferi con l’unghia del pollice.
Egli è l’avversario per eccellenza della maggior parte dei detective della letteratura noir, dove l’abuso di potere e la violenza delle loro azioni li rendono dei miti, senza dubbio ineguagliabili, appunto. 
Marlowe è un tipo dall’antologia delle battute comiche, dai paragoni bizzarri e azzardati, dove «la testimone è carina come una vasca da bagno» (p. 36), e dove un cliente esegue i suoi ordini «con lo stesso rumore di una mosca che zampetta sulla parete» (p. 146). Egli crede nella sua idea di giustizia, e nonostante i gravi pericoli vestiti di morte, Philip Marlowe rimane fedele ai suoi pensieri e alle sue azioni, cercando l’aiuto degli individui peggiori con il solo potere della parola e della verità, lasciando ai corrotti e ai veri duri la violenza.

Addio, mia amata (1940), secondo della serie di otto romanzi con protagonista Philip Marlowe, è un tripudio di dettagli giusti, dove letteratura e sceneggiatura si penetrano, generando una visione completa e attenta dei due protagonisti indiscussi, l'investigatore privato e la città, che si fiancheggiano senza posa, fino a diventare un personaggio unico e indivisibile.
Quarantuno sono i capitoli che si susseguono con eleganza stilistica e frenesia, ciascuno con un incipit degno di un nuovo romanzo.
Sbuffi e linee di fumo si aggrappano ai tessuti del lettore, come la nebbia carica di nicotina di un club underground delle grandi metropoli. «Il fumo era sospeso nell'aria, dal soffitto al pavimento, sotto forma di cordicelle sottili, come una tenda di perline trasparenti» (p. 171). Quel nugolo di vapore vela la radicata corruzione di una fascinosa e dissoluta California, dove «uno non può restare onesto neanche a volerlo. [...] Si ritrova in mutande, se solo ci prova. O giochi sporco, o non mangi.»

«Sono un duro. Se non ci credete, provate a fermarmi» (p. 105)

Olga Brandonisio