di Francesca Guercio
Alessandro Polidoro Editore, gennaio 2021
pp. 328
€ 14,00 (cartaceo)
€ 7,99 (e-book o disponibile gratuitamente per Kindle Unlimited)
Un libro particolare questo, che spero avrete presto tra le mani e nella vostra libreria. Inizia dalle conclusioni, e termina con l’introduzione, già dalla sua struttura possiamo quindi notare l’originalità. Ci viene svelato subito il finale, senza però infastidirci: una giovane donna, durante un viaggio organizzato negli Stati Uniti, approfitta di una breve pausa per sporgersi sul Grand Canyon e decidere di porre fine alla sua vita, senza esitazioni, lanciandosi nel vuoto e basta. Spera così di mettere la parola “fine” alle sue sofferenze d’amore, per liberarsi finalmente della presenza costante di un uomo che ha aperto una breccia nella sua anima, lacerandola e riempiendola di angosce e frustrazioni. Ma il destino ha deciso di non accontentarla: non andrà semplicemente in paradiso o in un luogo lontano anni luce dalla sua precedente vita. Al contrario, da morta, si risveglierà nella figura trasparente e immateriale di un fantasma, imparando a tastarne i limiti e le potenzialità, sul sedile del viaggiatore della macchina di quello stesso uomo da cui sperava di non tornare mai più. Ironica la vita, no?
Un’ironia che traspare anche dallo stile dell’autrice, pungente e sarcastico, e allo stesso tempo molto profondo e intimo. La protagonista ci narra la sua storia, insieme alle contraddizioni che caratterizzano la nostra Italia, da Nord a Sud, da Ponente a Levante. Dell’uomo che l’ha fatta soffrire per otto lunghi anni non conosciamo il nome, preferisce semplicemente chiamarlo “Lui” per non esporlo troppo, per riuscire a “sputtanarlo” senza che il lettore possa intuire chi è. Lui è un attore che accetta qualsiasi incarico pur di racimolare una somma sufficiente per sostenere le spese del figlio, pur di rimanere lontano da casa e dalla moglie per più tempo possibile. Il suo matrimonio con Eliana (l’autrice ammette di aver inventato il nome, le sembra congeniale e azzeccato, forse più di quello vero che non ci vuole rivelare) sembra correre sui binari di una montagna russa di periferia, in un luna park avvolto dalla nebbia, su e giù in un loop infinito che altro non fa che alimentare l’infedeltà recidiva di Lui. Durante le sue tournée, infatti, accompagnato dalla presenza silenziosa e immateriale della protagonista, si trova costantemente alla ricerca di nuove donne, nuove esperienze, che saziamo la sua fame di vanità e il suo ego già smisurato fino a ridurlo a un pallone gonfiato, pronto a esplodere in qualsiasi momento.
La protagonista non voleva morire, desiderava semplicemente premere il tasto off che si nascondeva nella sua mente, per smettere finalmente di pensare: “Diciamolo pure, il mio suicidio è conseguenza di un’incontrollata attitudine all’iperattività cerebrale unita a un’innegabile fragilità psichica: ciò a cui veramente ambivo non era tanto il trapasso quanto l’opportunità di smettere di pensare”. (p. 50)
L’ironia tagliente è una costante in questo romanzo, diviso in tanti piccoli capitoli introdotti da poesie grafiche e visuali alla Apollinaire. La protagonista, persino da morta, riesce a cogliere l’ironia della sua stessa sorte:
A sentirlo parlare mi sale la stizza per non essere riuscita a liberarmi di quest’impiastro nemmeno con un salto nel Grand Canyon e d’improvviso tutto mi pare soltanto un’enorme fregatura: ho deciso di suicidarmi per sottrarmi alla pena di essere innamorata di lui e cosa mi tocca? Il monopolio oltre tempo massimo! (p. 75)
La donna è infatti costretta a seguire ogni movimento dell’uomo che le aveva spezzato il cuore privandola della sua libertà, accompagnandolo in un viaggio che durante la lettura vedremo essere anche una sorta di viaggio interiore di un’auspicata guarigione ed espiazione delle proprie colpe. Lui non smetterà di nutrire il suo narcisismo in ogni momento, così come non smetterà di essere fondamentalmente incapace di amare se stesso e gli altri, continuando a tradire la moglie, incapace di uscire da quel vortice in cui si lascia intrappolare da sempre. Il karma sembra però adempiere al suo compito verso la fine, quando proprio pochi giorni prima di un’importante esibizione a teatro, Lui perde completamente la voce, in preda a un blocco emotivo psicosomatico, scherzo curioso del destino. Lei prova pena per quell’uomo che aveva amato così intensamente e “per la sua vita, per questa solitudine oceanica che riempie di distrazioni e di fatica pur di non guardarla in faccia.” (p. 83)
Francesca Guercio riesce a dare al lettore dei preziosi consigli, dandogli del tu, come una sorella maggiore che avendo già fatto determinati errori vuole metterci in guardia sui pericoli di una relazione tossica e sostanzialmente univoca, affinché noi impariamo una lezione fondamentale: amare non significa schiacciare la nostra identità, vivere nella paura di sbagliare, somatizzare le nostre sofferenze in malattie di vario genere o farci annegare in un mare tormentoso di dubbi e angosce. L’equilibrio è fondamentale: amare l’altro senza dimenticarsi di amare anche noi stessi.
La noia non abita le pagine di questo romanzo, perché l’eterodossia stilistica dell’autrice non lo permette: con una scrittura profonda e leggera allo stesso tempo, proprio com’è la vita, l’autrice sembra parlare di una lunga canzone prog-rock, avendo cura però di descriverne solo il ritornello, evitando quei lunghi minuti di noia strumentale.
La protagonista, tra finzione e realtà, rivive il suo passato, pregandoci di non fare i suoi stessi errori, mostrandoci l’indifferenza alla vita e all’amore che è propria di Lui. La narrazione è accompagnata da un’importante critica dell’Italia contemporanea, agghindata con tutti i pregiudizi e i cliché sedimentati ormai da sempre nella mente della maggior parte degli italiani, come la convinzione che un fonico in un piccolo paesino pugliese possa lavorare solo in qualità di parente di un importante capo mafioso. Un’Italia fatta di dialetti, di malelingue e cattiverie sussurrate sempre alle spalle degli interessati, di feste snob che ricordano un po’ il vuoto profondo e triste della Grande bellezza di Sorrentino.
Dall’Alpi a Scilla, dall’uno all’altro mar questo appello alla parsimonia sembrava il mantra dei politici, locali e non. Cominciai a prestare attenzione alla cosa e mi accorsi che gli effetti devastanti di tanta superficialità nella comunicazione della classe dirigente potevo ormai rastrellarli io stessa tra le chiacchiere al mercato così come in quelle dei dibattiti televisivi. (p. 123)
Sorridendo amaramente mi sono ritrovata spesso nelle pagine di questo romanzo, a volte persino un po’ imbarazzata nel vedere nero su bianco alcuni miei stati d’animo segreti, e spero vivamente che O d’amarti o morire, romanzo d’esordio brillante, possa aiutare a cauterizzare le ferite dei futuri lettori, e accettare le conseguenze di un mare in tempesta ormai passato, perché da quelle onde che hanno trascinato nell’abisso molti di noi, si può solo risalire.
Riuscirà il Drammaturgo Cosmico a salvare Lui e noi?
Lidia Tecchiati