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#CritiMUSICA - Sulla “curva strada” di idoli senza tempo: Ian Penman racconta miti e misfatti della musica novecentesca

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Ian Penman Mi porta a casa questa curva strada



Mi porta a casa, questa curva strada
di Ian Penman
Edizioni Atlantide, dicembre 2020

Traduzione di Luca Fusari
pp. 208
24,00 € (cartaceo)


Non è che il vero cuore della questione riguarda, più che tale o talaltro movimento o tendenza, il concetto di “come vediamo noi stessi”? Non era questo il vero cambio di marcia dei modernisti? 
(p. 31)

Ascoltare pezzi di artisti che amiamo è un po’ come prendere i mezzi pubblici. Quando si sale su metropolitane e tram e si riesce ad evitare la calca dell’ora di punta, ci si guarda intorno e accade di fantasticare sulle vite degli altri passeggeri; ci si può immaginare come organizzino la loro domenica mattina o le loro mensole del salotto, cosa dicano ai propri cari al telefono e cosa stiano pensando in quell’istante. Questo scuriosare variabile nelle vite altrui mi riporta alla struttura e al tono della raccolta di saggi di cui vi parlo oggi, pubblicata da Edizioni Atlantide nel dicembre 2020. Già il titolo è di per sé eloquente ed evocativo: Mi porta a casa, questa curva strada. Si tratta di un verso della poesia Walks (1958) del poeta inglese W.H. Auden (in originale, “It gets me home / this curving track”), che il suo connazionale Ian Penman, autore della raccolta e celebre critico musicale, estrapola con eleganza, utilizzandola come “un’incantevole descrizione del disco che gira” (p. 7). La track, la traccia musicale, o meglio, il percorso di cui parla Auden diventa la linea guida nella lettura del testo di Penman, composto da otto saggi che mettono a tema vizi e virtù di artisti celebrati e generi musicali disparati; dal rock’n’roll, al soul, al pop nascente, alle contaminazioni sfacciate ed amate degli anni Settanta e Ottanta. 
Talvolta penso che soltanto stropicciandosi la vista e sognando un po’ sapremmo distinguere meglio la vera storia.
(p. 73)
Penman racconta delle vite di alcuni “big” della musica allo stesso modo in cui la puntina del giradischi segue i solchi del vinile che gira a velocità costante sul piatto; un suono caldo, pieno, forse un po’ dimenticato. La cultura Mod, espressione di un tipo di cultura “Brit” parzialmente incompreso; la formula di James Brown, un cocktail potente di disperato anelito verso il successo, sound inconfondibile e pelo sullo stomaco; il sax di Charlie Parker, “demone corporeo, changeling senza peso” (p. 73), prodigio del jazz dell’epoca d’oro; il canto dal “cuore segreto” (p. 91) di Frank Sinatra, leggenda della musica contemporanea, figura contraddittoria, talento sconfinato; “the King”, Elvis Presley, sovrano assoluto della rivoluzione musicale della seconda metà del Novecento, timbro inconfondibile e messaggero di una profonda compresenza di generi musicali, dal country degli albori, al blues nero; John Fahey, chitarrista eccelso che fa a pugni con le sue radici musicali blues; il cantante e tastierista degli Steely Dan, Donald Fagen, beatnik dell’East Coast per scelta, promotore di suoni ricchi di riferimenti intertestuali; infine, la star, Prince, il pop personificato, esplosione stessa di carattere e provocazione. Questi i protagonisti del resoconto di Penman, che però non si sofferma soltanto sulla testimonianza storica o sulla rappresentazione biografica di tali artisti, bensì arricchisce il tutto di riferimenti bibliografici di cui dà una personale opinione critica e di una prosa elegante, diretta e arguta nelle scelte lessicali, puntuali e spassose. La lettura è fluida e davvero godibile, priva di inflessioni accademiche fuori posto o difficili da digerire. 

Confesso di aver centellinato le pagine di questo libro, diluendole nei momenti di pausa giornalieri, accompagnando alla lettura l’ascolto dei brani che l’autore stesso indica in un’appendice discografica finale, una “mappa delle atmosfere” (p. 193). Ogni saggio può diventare un sfizio quotidiano. Il ritmo narrativo lo rende un testo che si rivolge non solo ad una nicchia ristretta di intenditori e amanti di jazz, blues, rock e pop anni Settanta e Ottanta, ma anche a chi desidera approfondire le vite di artisti che tutti, più o meno superficialmente, conoscono. Inoltre, la comprensività di generi musicali trattati in questi scritti e la copertura critica di un periodo piuttosto fiorente come la seconda metà del Novecento fanno riflettere su come il Secolo Breve possa essere letto sotto nuova luce tramite l’esplorazione della storia della musica leggera. Allo stesso modo, essa illumina aspetti di dinamiche culturali e sociali condivise, come la disparità etnica e di genere, realtà ineluttabili nella nostra contemporaneità. 

Mi porta a casa, questa curva strada è uno di quegli esempi di testi ben riusciti in cui la parola scritta incontra quella sonora, la prosa narrata si interseca con la musica ed le due diventano indispensabili l’una per l’altra, nella comprensione del senso e nel suo approfondimento. Penso che, infine, il senso della raccolta di Penman, collezione di note, di coloro che le hanno ascoltate e di coloro che le hanno scritte, talenti angelici e/o animi demoniaci, trovi una propria descrizione in queste sue parole: “Quante madornali malefatte siamo disposti a sopportare, a fingere di non vedere o a giustificare, pur di avere in cambio arte magnifica, e magari redentrice” (p. 11). Forse infinite?

Vi lascio con un consiglio: se volete anche voi accompagnare la lettura dei saggi di Penman alla musica di cui racconta o che lo ha ispirato nella scrittura, trovate gli album da lui indicati in appendice raccolti in una playlist intitolata “Mappa delle atmosfere” su Spotify (e qui sotto il link). Buona lettura e buon ascolto! 

Lucrezia Bivona