«L’odio è il piacere più a buon mercato che ci sia»: Il fratello buono, un romanzo crudele e attuale

 
Il fratello buono  di Chris Offutt



 Il fratello buono

 di Chris Offutt
 Minimum Fax, 2020

 Traduzione di Roberto Serrai

 pp. 360
 € 19 (cartaceo)
 € 9,99 (ebook)



Questo articolo doveva vedere la luce diverse settimane fa. Per ragioni troppo noiose da spiegare, il tempo si è accumulato. Ma quando è venuto il momento di riprendere in mano. Il fratello buono di Chris Offutt e l’articolo scritto, il mondo intorno a noi aveva appena vissuto uno squarcio e l’attualità, i terribili fatti di Capitol Hill del 6 gennaio, sono entrati prepotentemente anche in queste pagine. La storia narrata da Offutt nel romanzo non ha direttamente a vedere con la vicenda, eppure ne è strettamente collegato, almeno nella mia percezione: perché Offutt, come altri narratori attenti, legge la realtà in cui è immerso e, nel suo caso, riesce a riportare sulla pagina scritta le complessità e le contraddizioni di un mondo che per lo più tendiamo a ignorare quando pensiamo agli Stati Uniti, ma che invece ne rappresentano la parte più concreta e reale. Sono quelle “terre di nessuno” – per citare la prima bellissima raccolta di racconti con cui l’autore si è fatto conoscere anche al pubblico italiano –, la provincia più profonda, che viaggia su binari diversi dal resto del paese, in cui un certo grado di violenza è presente nella vita di ogni giorno, nella brutalità della sopravvivenza a contatto con una natura che non fa sconti, nei confini ristretti delle possibilità che ci sono concesse, nei sogni mediocri, in un sistema di valori che c’entra poco o nulla con il mondo “fuori”.

Ancora una volta Offutt torna ai suoi luoghi, fra Kentucky, Wisconsin, Montana e, inaspettatamente, nella vicenda di Virgil Caudill si affaccia l’attualità, il sentimento di rabbia latente che sta infiammando il Paese e che ha portato ai recenti eventi di Washington. Non è questa la sede per lanciarsi in riflessioni socio politiche, ma era impossibile rileggere queste pagine ignorando il mondo fuori e quella capacità dei libri di arrivare a noi in un dato momento, toccando corde che altrimenti sarebbero rimaste immobili. Il gruppo di estremisti che incrociano la strada di Virgil, ma ancora di più il sentimento generale di rabbia, disprezzo, razzismo, che ne sono la parte costitutiva, richiama in maniera particolarmente concreta i movimenti che nell’era Trump abbiamo purtroppo imparato a conoscere e che rappresentano una della tante identità degli Stati Uniti. Sarebbe molto comodo negare che esistano o che siano solo un gruppo marginale, la realtà è molto più complessa e gruppi estremisti di questo genere, i suprematisti bianchi, si nutrono delle paure e della rabbia di una fetta considerevole della popolazione, in gran parte quella stessa che ha votato e continua a sostenere Trump. Con questi sentimenti e le terribili immagini che abbiamo visto di quei giorni, entrare di nuovo nel romanzo di Offutt ha assunto quindi un significato diverso e questo aspetto non poteva certo essere ignorato.

Il fratello buono si inserisce in questo discorso, la rappresentazione di un gruppo di estremisti che rifiutano le leggi del governo federale è senza dubbio la sua parte più attuale e spaventosa, ma da un punto di vista letterario ne rappresenta solo un elemento, uno dei numerosi spunti e tematiche su cui Offutt si sofferma. Ecco, restando alle considerazioni letterarie, questo che abbiamo tra le mani è senza dubbio un buon romanzo, anche se siamo lontani dalle vette che la scrittura di Offutt raggiunge nei racconti. È come se le parole strabordassero, non più contenute in una forma che ne richiede il controllo assoluto e la cura artigiana, in una sovrabbondanza di temi, microstorie, personaggi e vicende che non sempre l’autore riesce a maneggiare. Resta ovviamente un buon romanzo, ancora una volta magistralmente tradotto da Roberto Serrai, che apre a numerose riflessioni: l’America rurale, il Kentucky (ma anche il Montana e il Wisconsin) con il proprio codice morale, quel misto di accettazione e rassegnazione, il rifugio nell’alcool, la brutalità e il confronto quotidiano con la morte nella lotta per la sopravvivenza, la solitudine e l’isolamento.

Sono un filo rosso che percorre la produzione letteraria di Offutt e che ritroviamo anche qui, nella storia di disperata malinconia di Virgil Caudill. È lui “il figlio buono” – anche se scopriremo che il confine tra giusto e sbagliato non è così netto – , quello che si trova a fare i conti con la perdita del fratello, Boyd, la testa calda di famiglia: tutti sanno chi ha ammazzato Boyd, tutti aspettano che Virgil faccia il suo dovere e vendichi la morte del fratello. Sono passati già alcuni mesi, le insinuazioni e le chiacchiere si susseguono, ma Virgil fa di tutto per riuscire a ignorarle e continuare a vivere la propria vita in tranquillità, semplice e regolare come ha sempre desiderato. Il dubbio, le pressioni, scavano dentro di lui.
Tutto si riduceva a uccidere Rodalee, e questo gli dava la nausea. Lui non andava nemmeno a caccia. Voleva solo la capanna di tronchi del padre, ed essere lasciato in pace. Avrebbe sposato Abigail, avuto un sacco di bambini e gli avrebbero ricamato il nome sulla camicia. (p. 88)
Ci sono solo due possibilità per lui, entrambe dalle conseguenze devastanti: fare ciò che tutti si aspettano, vendicare la morte del fratello e fuggire, o ignorare le insinuazioni, vivere la propria vita nel disprezzo della comunità, ma in qualche modo felice. Il lettore scoprirà presto quale strada sceglie per se Virgil, non è uno spoiler. Ma la decisione da cui non si torna indietro scatena una serie di complicazioni, mutamenti di rotta e soprattutto domande su sé stesso, sulla propria idea di felicità, sul proprio posto nel mondo, sulla sua stessa identità.

Tornando continuamente con il pensiero a un’epoca più felice, ai boschi di casa, al rapporto con il fratello, la mancanza del padre, Virgil apre al lettore uno sguardo sull’intimità di un uomo lacerato dalla solitudine e dalla malinconia, che conosce il disprezzo e l’emarginazione da tutta la vita:
«Nella contea dove sono cresciuto», disse Joe, «c’era solo gente bianca e povera. Avevamo il contrabbandiere di liquori, le partite a poker e le sparatorie. Quando andavamo in città alla gente non piacevamo per questo, e ci trattavano male. Lo sapevo già da bambino. Erano cose da poco, ma erano lì. Come al negozio di alimentari : il ragazzo che preparava le buste le portava in macchina a tutti tranne che a mia madre. Dopo ho trovato lavoro sul camion dell’immondizia. La gente, per questo, mi guardava con disprezzo». (p. 318)
C’è sempre, a ogni latitudine, un noi e loro, c’è sempre qualcuno da odiare, da disprezzare, da considerare diverso. Nel mondo di Virgil la povertà è un marcatore netto, come lo sono la razza, le origini, l’appartenenza o meno a un luogo. Lo straniamento di quest’uomo, la solitudine immensa, si fa insopportabile, in pagine così cariche di emozione da risultare elettriche, che Offutt racchiude dentro spazi magnificamente evocati, la vastità delle montagne e dei boschi che contrasta perfettamente con la piccolezza degli uomini, la miseria quotidiana, la mancanza di possibilità.
Nella miriade di tematiche e spunti, la brutalità di certi sentimenti squarcia la pagina e scavano nel lettore: la solitudine, la malinconia, le radici, considerazioni e sentimenti con cui è facile confrontarsi anche in un romanzo come questo, ma altri spunti entrano più sottopelle e ci mettono di fronte alla parte più oscura dell’animo umano, ci costringono a cambiare la prospettiva, a condannare la violenza e il disprezzo ma prendere consapevolezza che esistono anche in questa forma, sono anch’esse espressione di un paese che crediamo di conoscere.

Come si diceva in apertura, riflettere su queste pagine alla luce dei recenti fatti di cronaca aggiunge ulteriori squarci alla lettura, che si fa viva, pulsante, brutale; ma, alla fine, ciò che voglio portare con me oltre la fine della storia è la commozione per la solitudine di un uomo sradicato, smarrito, la malinconia per qualcosa di irrimediabilmente perduto:
Tornò a casa e si sedette sul ceppo. La montagna gettava un’ombra a zig-zag che divideva il canyon. Quella terra gli era estranea come l’interno della sua capanna. L’aria diventò grigia, poi nera. Arrivò il verso del coyote. Cominciò a nevicare. Aveva del cibo, ma non aveva fame. Aveva una Jeep, ma nessun posto dove andare. Aveva un nuovo nome, ma nessuno che potesse chiamarlo. (p. 168)
E di certo Virgil non può essere considerato un eroe o un paladino della giustizia, ma attraverso i suoi occhi osserviamo un mondo che brucia guidato dall’odio e dall’intolleranza e ci aggrappiamo con tutte le forze alla semplicità e al cuore di chi ancora non ha perso la propria umanità.

Di Debora Lambruschini