Everest. Una storia lunga 100 anni
di Stefano Ardito
Laterza, ottobre 2020
pp. 288
€ 20,00 (cartaceo)
€ 11,99 (ebook)
Il mio rapporto con le montagne è stato conflittuale, di amore e odio, ma ora soprattutto di amore. Sono nata e cresciuta in una magnifica conca circondata solamente da montagne, ovunque io volga lo sguardo. Da piccola mi sembrava un luogo claustrofobico, le Dolomiti erano troppo alte, e non permettevano ai miei pensieri e ai miei sogni di volare lontani. Mi sentivo in trappola, chiusa, e appena ho potuto mi sono allontanata da queste alte creste rocciose per andare a vivere in un luogo aperto, con un orizzonte talmente lontano da riuscire a scorgerlo malapena. Quando sono tornata a casa, qualche anno dopo, ho capito però di aver sempre avuto bisogno di quelle montagne, anche se mi avevano infastidito così tante volte. Perché in realtà con la loro imponenza mi hanno abbracciata fatta sempre sentire protetta, parando pericoli lontani, e hanno permesso alla mia identità di non perdersi mai. Pur non essendo io in alcun modo un’alpinista, mi riconosco spesso nelle parole di Reinhold Messner, con cui condivido la terra natia, e uno degli alpinisti più grandi di tutti i tempi, il primo ad aver scalato tutti gli Ottomila senza l’uso delle bombole di ossigeno: “Quando guardo le montagne ho i sentimenti delle montagne dentro di me: li sento, come Beethoven che sentiva i suoni nella testa quando era sordo e compose la Nona sinfonia. Le rocce, le pareti e le scalate sono un’opera d’arte”.
Ricordo ancora le primissime volte sulla neve in montagna con i miei genitori, imbacuccata in una pesante tuta da sci rosa acceso. In inverno, eravamo soliti andare all’alpe di Siusi, sull’altipiano dello Sciliar, a circa 2000 metri di altezza. La mia passione per la montagna ha radici molto lontane, e non si è ancora sradicata in me, e sono abbastanza certa che mai lo farà.
Il libro di Stefano Ardito ci racconta la passione per la montagna, per l’avventura, la gioia nel porsi dei limiti e superarli più e più volte, desiderando profondamente di arrivare a sporgersi dal tetto del mondo, la montagna più alta dell’universo a 8848 metri di altitudine: l’Everest. Può sembrare agli occhi del lettore quasi come un immancabile manuale della storia della montagna più alta del mondo, ripercorrendo le vicende di tutti gli appassionati che hanno voluto sfidare se stessi e la natura, provando ad arrivare lì dove ci sono voluti anni e anni di tentativi per arrivare. Gli avvenimenti raccontati in ordine cronologico sono ricchi di nomi, date e dettagli di quelle gelide giornate che accompagnavano la paura dell’ignoto dei primi alpinisti. Il libro si apre con la prima vera e propria ascesa riuscita, quando nel 1953 lo sherpa Tenzing Norgay e il neozelandese Edmund Hillary furono i primi a mettere piede sulla cima più alta del mondo.
La descrizione dei molteplici tentativi di ascesa all’Everest parte dai primi decenni del Novecento e arriva fino ai giorni nostri. Scopriamo il cambiamento degli alpinisti, delle tecniche da loro usate per tentare l’impossibile: dal provare a salire senza l’ausilio di ossigeno al rendersi conto della necessità dell’ “aria inglese”, nome attribuito ironicamente dagli sherpa alle bombole di ossigeno utilizzate dai britannici. La narrazione delle moltissime spedizioni all’Everest è affiancata da precisi e necessari riferimenti al contesto storico-politico del tempo: non bisogna infatti dimenticare che, soprattutto nelle prime spedizioni, l’agognata vetta dell’Everest era sinonimo di supremazia politica, e all’inizio gli inglesi volevano a tutti i costi essere i primi ad arrivare a 8848 metri, per piantare nella neve la bandiera dell’Union Jack e affermare così la loro potenza e supremazia sul territorio che avevano colonizzato, l’India. L’Everest si trovava poi in un punto particolare, al confine tra Nepal, Tibet (ora annesso alla Cina) e Cina, i quali nella seconda metà del ‘900 erano in conflitto tra loro, rendendo difficile l’ottenimento dei permessi per le varie spedizioni mondiali. Per salire in vetta bisognava inoltre ottenere la benedizione del Dalai Lama, sovrano del Tibet: insomma, l’iter per arrivare in vetta prevedeva numerosi ostacoli e incognite. Le imprese alpinistiche descritte erano dunque intimamente legate alle vicende politiche del tempo, tanto che è praticamente impossibile raccontare le une senza soffermarsi anche sulle altre.
La bellezza dell’Everest e delle altre cime che formano l’Himalaya è stata oggetto di bellissimi racconti in prima persona, da cui traspare la gioia e l’emozione di sentirsi legati alla Natura, grati di essere riusciti a vivere questo privilegio. Lo scrittore Mark Twain descrive così il suo stupore e l’incanto cui aveva assistito:
Vidi il sole allontanare il velo grigio, poi toccare una dopo l’altra le vette innevate con pallide macchi di rosa e con delicate pennellate d’oro, e finalmente inondare l’intera poderosa convulsione di montagne innevate con un diluvio di ricchi splendori. (p. 12)
Questa adorazione per la montagna non deve però prescindere da un valore fondamentale: il rispetto. Bisogna essere umili, accettare la propria inferiorità umana nei confronti di quel gigante di roccia e ghiaccio, comprendere i propri limiti e soprattutto mai sfidare Madre Natura. Ricordando le parole di Messner, non bisogna dichiarare guerra alla montagna, bensì dialogare con essa: “L’uomo da solo, non in lotta con la montagna, ma con lei impegnato in un dialogo profondo. Questo è il mio modo di vedere l’alpinismo”.
Un messaggio importante, che purtroppo non trova una corrispondenza reale nel nostro presente: verso la fine del libro è infatti raccontata una vicenda risalente al 22 maggio del 2019, quando l’alpinista nepalese Nirmal Purja “sale e scende a tempo di record dall’Everest lungo la via normale dal Colle Sud” (p. 209). Scendendo, si ferma a scattare una fotografia che diventerà virale facendo il giro del mondo: immortala una fila interminabile di alpinisti attende di affrontare lo Hillary Step, il muro di roccia e ghiaccio che precede la vetta e la vittoria. La foto diventa così il simbolo drammatico della commercializzazione della montagna, che quel tragico giorno provoca la morte di sei alpinisti dopo che avevano esaurito nell’interminabile attesa l’ossigeno dei loro respiratori. Quella fotografia è forse il simbolo della società odierna: una società in cui tutto diventa alla portata di tutti, basta pagare.
All’autore va il merito di aver ricostruito con cura e precisione i 100 anni di spedizioni internazionali sull’Everest, raccontando non solo la storia degli alpinisti, ma anche del contesto storico-politico in cui queste imprese ebbero luogo. Il libro è molto interessante, anche se a tratti forse eccessivamente descrittivo, e si presta ad essere letto sia da non-professionisti che, come me, vogliono saperne di più su ciò che si cela dietro l’imponenza della montagna, sia per sportivi ed alpinisti che, magari mossi dal desiderio di tentare questi 8848 metri, vogliono informarsi sulla storia alpinistica che li precede.
La critica sociale al nostro presente invita infine il lettore a riflettere sul mondo in cui viviamo, che mette in secondo piano il rispetto per la Natura e il profondo dialogo dell’uomo con essa, dando invece più importanza al denaro, illudendoci che l’Everest sia alla portata di tutti, e subito. Il denaro non basta per arrivare in vetta, bisogna innanzitutto conoscere bene se stessi, i propri limiti, e partire dal presupposto che la Montagna, in quanto figlia primitiva della Natura, sarà sempre superiore all’uomo.
Il 20 agosto 1980 Reinhold Messner fu il primo uomo sulla Terra a conquistare da solo, senza corde né ossigeno, la cima più alta del mondo. Un’impresa che verrà ricordata come la più sensazionale nella storia dell’alpinismo, e che Messner ricorda così: “Non sono mai arrivato così vicino al confine, al confine tra questo mondo e l’aldilà, tra me e gli altri”, e ancora “mai prima d’ora un tour in montagna ha coinvolto il mio intero essere così insistentemente come questo”.
In attesa di nuove strabilianti imprese, vale la pena conoscere quelle passate, iniziate con la dedizione e la tenacia di un militare ed esploratore britannico, Sir Francis Yonghusband, esattamente 100 anni fa, nel maggio 1920.
Lidia Tecchiati