di Jón Kalman Stefánsson
Iperborea, 2020
Traduzione di Silvia Cosimini
pp. 235
€ 17,00 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
È un romanzo parzialmente diverso dagli
altri a cui ci ha abituato Jón Kalman Stefánsson, questo Crepitio di stelle. Si tratta infatti di un’opera giovanile e di
carattere autobiografico.
La casa dell’infanzia emerge improvvisa
alla memoria del narratore, che adesso ha quarant’anni e vive in un altrove, da
dove, nel 2002, osserva il cielo e si lascia travolgere dalle interferenze che
si creano con tempi lontani. Nella memoria, ha sette anni, e il suo universo è
ristretto alla vita del quartiere, eppure appare immenso, fuori portata. Vive solo
con il padre e il suo esercito di soldatini, e la fantasia dilata gli spazi angusti del quotidiano, almeno fino a
quando non fa irruzione nella loro vita una donna con lo sguardo “più duro di una bestemmia” (p. 24),
specialista in silenzi e densissime zuppe d’avena, “un nome sinistro, inquietante, che emerge dal profondo del mondo delle
fiabe: matrigna” (p. 45).
Il ricordo non fa capolino al
presente in maniera ordinata: come brandelli di tessuto ritagliati a
sforbiciate, scampoli del passato
riemergono più o meno ampi, creando un patchwork in cui si incontrano le storie
degli uomini e le donne della famiglia.
A volte la sera quando vado a letto, non più a sette anni ma a quasi quaranta, e il sonno mi si avvicina come un crepuscolo, vedo quelle forbici enormi che tagliano in profondità la nebbia del mio passato. (p. 10)
Primo fra tutti il bisnonno, con la sua
inquietudine insopprimibile (“una volta
credevo che la vita fosse tutto ciò che è in movimento, e che dunque
l’immobilità fosse la morte”, p. 35), la sua predisposizione all’alcol e a
una vita piena di oscillazioni, di cedimenti, di buoni propositi continuamente
infranti; e poi l’incontro con la bisnonna, timida e schiva, che un giorno di
quasi cent’anni prima, quello a cui il narratore fa risalire le proprie radici
lontane, l’aveva seguito nella sua soffitta a Vesturgata:
La finestra li ha visti entrare, era un pomeriggio pigro e pieno di sole, e sul volto di entrambi l’antica espressione di un nuovo inizio; una sottilissima mescolanza di timidezza e audacia, esitazione e ardore, tristezza e incontenibile felicità. (p. 51)
Peccato che il bisnonno sia prigioniero
delle sue debolezze e non riesca davvero a trovare pace se non in una libertà
apparente, conquistata a scapito della famiglia: “tu saresti un eroe in una guerra lampo, ma in una lunga un disertore”
(p. 125) gli rinfaccia la moglie di fronte alle continue infedeltà, mentre
resiste, continuando a richiamarlo a sé, a raccogliere i cocci. Anche quando le
sue intemperanze portano l’intero nucleo familiare in una fattoria sulla
penisola di Snæfellsnes, dove la donna avrà modo di incontrare un
affascinante uomo di mare dai capelli rossi e il cuore di poeta.
Stefánsson riesce a giocare
meravigliosamente con le focalizzazioni: in alcuni passi, il narratore è
davvero un bambino di sette anni, che
crea nessi inaspettati tra le cose, dialoga con gli oggetti, non comprende
appieno le relazioni e le stranezze del mondo adulto. A lui parlano le vie
di Reykjavík, o i soldatini che
si affrontano tra gli scaffali della sua cameretta.
Ogni piano narrativo è avvicinato al lettore grazie all’utilizzo del tempo
presente. L’autobiografia è trasfigurata
dalla letteratura, si fa visionaria, poetica, e del resto è la poesia la
prima vera cifra qualitativa della scrittura di Stefánsson. L’altra è l’esistenza umana, che viene trasposta
sulla pagina in tutta la sua tragedia, in tutta la sua meraviglia. Non c’è nulla che non sia degno della
narrazione, neanche la morte, che viene restituita mediata, attutita, ma per
questo ancor più straziante, attraverso gli occhi del piccolo narratore. È
inconcepibile per un bambino di sette anni accettare l’assenza della madre. È
inconcepibile non trovare risposte negli oggetti quotidiani, nell’aritmetica,
neppure nei libri. È inconcepibile che lei, sepolta al declinare dell’estate,
non abbia portato con sé un cappotto per l’inverno. Inconcepibile non poter
oltrepassare la terra che li separa.
La mia via si chiama Safamýri. Non è molto vecchia e per questo conosce pochissime parole. Safamýri sa dire Natale, ma non albero di Natale, e nemmeno decorazioni di Natale. Mia madre canta le carole natalizie dal profondo del suolo. Un autista di autobus, uno stampatore, un insegnante e altre persone anziane cantano con lei, però io no. Chi si trova sopra la terra non può celebrare il Natale con chi si trova sotto, c’è troppa terra in mezzo. (p. 113)
È proprio intorno a questa madre perduta
troppo presto che si articolano alcune delle pagine più vibranti del volume.
Abbandonata a sua volta quando aveva due anni e cresciuta nell’Est, in una
fattoria dove ha potuto ascoltare il “crepitio
di stelle” e “ha trasformato le
parole in uccelli e le ha lasciate volare”, dove “si è svegliata alla consapevolezza” ed è diventata “un punto esclamativo nel tempo” (p. 60),
anche lei ha ereditato il gene
dell’inquietudine, tanto che dopo la prima notte d’amore con il futuro
padre del narratore scappa dalla città, lasciando il giovane disperato:
Vuole conoscere il mondo, la vita, se stessa, e non può pensare di sposarsi, farsi inghiottire dalle pressioni della società, doverlo aspettare a casa in cucina, lessare le patate, cuocere il pesce, far stare buoni i bambini – sacrificarsi. (p. 80)
E quando poi sceglie di tornare, lo fa
portando con sé l’aria, la vita, la giovinezza. Risulta quasi impensabile al
figlio ancora piccolo vederla spegnersi nella malattia, irriconoscibile,
definitivamente altra rispetto a quella che era prima.
Per il narratore divenuto adulto, allora, tornare a “casa” è innanzitutto un viaggio
sui passi della memoria, un rievocare le persone care, più che il ritorno
fisico sui luoghi del passato, ormai cambiati, che fa di lui quasi uno
scassinatore. È questa un’operazione da compiersi con prudenza, perché “‘casa’ è al contempo la parola più tetra e
più luminosa di una lingua. Per questo dobbiamo utilizzarla con giudizio” (p.
131).
Nel tratteggiare le vicende, con pennellate
ora rapide, ora più meditative, ma sempre comunque intrise di colori e di
suggestioni, Stefánsson ci porta al
cuore di questa “casa”, raccontandoci in parte di sé, mostrando la
creazione lenta di nuovi rituali, come quello del sabato sera in cucina con una
matrigna che poco alla volta si rivela per com’è davvero. Tra le pagine, quello
che sembrava un romanzo d’uomini si configura come una celebrazione di donne straordinarie, forti e piene di risorse,
in grado di tenere in piedi se stesse, ma anche i maschi fragili che le
circondano.
A complicare il quadro generale di una narrazione non lineare, che salta
continuamente tra i piani del passato secondo una prassi cara all’autore, nel romanzo fa irruzione la Storia, con
la prima guerra mondiale, di cui arrivano in Islanda soltanto echi lontani, il
proibizionismo, il tragico anno della febbre spagnola... eppure non è questo ad
attirare primariamente l’attenzione dei lettori. Quelli che Stefánsson vuole
tracciare, infatti, sono “schizzi di
attimi vissuti sulla superficie della terra” (p. 227), di uomini e di donne comuni, che hanno vissuto
esistenze piccole, ma hanno lasciato esiti concreti, duraturi, che hanno
allungato le loro radici attraverso i decenni: una conchiglia da restituire
al mare, una pietra alla terra, una famiglia al presente.
Carolina
Pernigo
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