Piuttosto m’affogherei.
Storia vertiginosa delle zitelle
di Valeria Palumbo
Enciclopedia Delle Donne, 2020 (prima edizione 2018)
pp. 328
€ 16,00 (cartaceo)
Disponibile per Kindle Unlimited
A lasciarsi condizionare solo dal suo titolo, così delicatamente in equilibrio tra l’iperbole e l’ossimoro, Piuttosto m’affogherei. Storia vertiginosa delle zitelle potrebbe sembrare un libro dettato da quel fanatismo e quel compiacimento che spesso caratterizzano la trionfante rivendicazione di uno status reputato per convenzione tanto sgradevole quanto indesiderabile. Sposarsi? Giammai! Molto meglio il suicidio (e molto meglio ancora se nella variante melodrammatica della morte tra le acque)! Studiare e raccontare il fenomeno del nubilato? Tutt’altro che una discesa noiosa e deprimente negli abissi della solitudine femminile: al contrario, una scalata ripida (e del non ritorno) verso le più alte vette dell’autodeterminazione, tra sentieri e tornanti a spirale talmente vorticosi da provocare il capogiro! Certo: forse le single contemporanee, più in pace con se stesse di quanto non lo fossero le loro antenate, non vivono la questione in termini altrettanto estremi e assolutistici, ma se Valeria Palumbo ha scelto una dicitura presentativa così spiazzante per ripercorrere il lungo cammino delle non maritate significa che c’era bisogno di smuovere dal fondo, e fin dalla prima enunciazione, le paludi stagnanti che troppo a lungo ne hanno infestato l’habitat e l’orizzonte interpretativo. Al punto che oggi, a due anni dalla prima uscita, il libro torna sugli scaffali in una nuova edizione, affidando ancora una volta la sua copertina al sembiante fiero e alla mise androgina di Greta Garbo nei panni della Regina Cristina (come da omonimo film del 1933).
Giornalista Rcs e collaboratrice di varie testate oltre che storica delle donne (è membro della Società italiana delle storiche e dell’Associazioni italiana Public History), Valeria Palumbo è autrice di numerose pubblicazioni; un’attività, quella della scrittura saggistica, affiancata a quella teatrale e alla conduzione di lezioni universitarie, corsi e incontri a festival storici e letterari. Il suo interesse per l’argomento del volume pubblicato da enciclopediadelledonne.it, ovvero la figura della “zitella” – termine da intendersi in senso neutro e puramente etimologico, dunque come derivato da cita, zita: vale a dire “ragazza” (“da marito”) – non è, per sua stessa ammissione, privo di implicazioni personali (non è mai convolata a nozze). Tuttavia, lungi dal tradursi in un trattato di rivendicazione fitto di rancori e risentimenti indirizzati al genere maschile, esso ha dato vita, al contrario, a una disamina lucida e ordinata di un fenomeno esistente da secoli e di volta in volta corrispondente a determinati contesti culturali, e dunque alle aspettative e prospettive che questi destinavano alle fanciulle. A questo proposito, come è noto, non è che la scelta fosse poi un granché, dal momento che le mura domestiche potevano giusto contemplare le varianti di quelle del convento e del bordello. Epperò, come è altrettanto noto, ogni rivoluzione ha pur sempre bisogno di aspettare le mosse della sua più coraggiosa avanguardia:
«da oltre due millenni le donne sono state indirizzate verso un unico, doppio destino: quello di spose e di madri. Ma da quando, in un passato mitico, Artemide ha chiesto e ottenuto dal padre Zeus di restare vergine e non doversi sposare mai, fino a quando Virginia Woolf, a inizio Novecento, ha scritto che ognuno deve essere libero di scegliere, si è snodata la complessa vicenda di chi non ha camminato lungo il binario definito. Spesso per ribellione. A volte per indole. O per puro caso. Così è stata scritta un’altra storia. Di passioni, desideri e talenti diversi. Ed è questa storia che vi andiamo a raccontare» (p. 5).
Storia di un gineceo/ginepraio e della sua evoluzione da obbligato hortus conclusus a desiderabile giardino di delizie? Beh, in un certo senso si, seppure con tutte le cautele valutative implicate da certe frettolose semplificazioni. Perché Valeria Palumbo sa bene quanto sia stato faticoso per le donne destreggiarsi tra gli intricati labirinti architettati da un giardiniere armato di cesoie spietate corrispondente al nome di “patriarcato”, quanto limitato sia stato il loro raggio d’azione e quanto frustrante sia stata l’estirpazione, al suo interno, di certe ostinate erbe infestanti. E anche perché il cuore della questione, alla fine, sta tutto nell’equilibrio tra necessità e virtù, tra condizione e decisione: insomma tra l’essere state (o l’essere ancora) zitelle per forza o zitelle per scelta; un’intenzione, quest’ultima, che ebbe modo di palesarsi con rivendicato orgoglio e con numeri statisticamente importanti solo molto tardi nel tempo, e per giunta come riflesso nitido (reale) di una narrazione letteraria (finzionale) che per la prima volta osò descrivere da una parte l’istituto delle nozze in tutto il suo cinico mercimonio, dall’altra la libertà come ideale di vita non altrimenti negoziabile (vedere soprattutto, anche se non solo, alla voce: Jane Austen).
Se dunque nel ripercorrere l’infinita sequela di imposizioni, violazioni, stupri, monacazioni e sottomissioni femminili la prospettiva dell’affogamento preventivo può sembrare, per certi versi, non eccessiva (e ciò sia detto con tutta la tolleranza per il gusto del paradosso), a mano a mano che si procede con la lettura si comprende sempre meglio che cosa renda la storia delle zitelle così legata a un senso crescente di vertigo (più che di virago). A suscitare un inquietante squilibrio è difatti la consapevolezza dell’invasività millenaria della questione matrimoniale nella vita delle donne, come se dalla qualificazione in termini di moglie (ma anche, alla peggio, di vedova) dipendesse l’ontologia sociale e culturale dell’individuo, con effetti verificabili e analizzabili nella mera cronaca storica come nelle rielaborazioni letterarie e fantasiose del fenomeno (motivo che spiega l’attenzione della studiosa per figure femminili realmente esistite – a partire dalla già citata regina Cristina di Svezia (1626-1689) – ma anche per personaggi di pura invenzione come Maga Magò, Mary Poppins, Miss Marple e tante eroine dei romanzi e racconti di fine Ottocento). Ad ogni modo, più che risucchiare verso il basso e dunque avvilire progressivamente e inesorabilmente il lettore, l’energia di questa disamina spiraleggiante agisce infine come una molla che ne spinge l’umore verso l’alto: non solo, e certamente in Occidente, la condizione attuale delle spose mancate non suscita più scandalo o disonore alcuno (al netto di qualche incallito pregiudizio), ma l’impegno civile affinché ogni donna sia libera di autodeterminare le sue sorti oltre il vincolo di una fede al dito e di un compagno di vita stabile è una realtà in continua e costante affermazione in tutto il mondo.
Al netto del suo titolo così sfidante e consapevole, che oscilla tra la minaccia spavalda e l’incipit di uno sproloquio autoironico, Piuttosto m’affogherei. Storia vertiginosa delle zitelle non è un libro “settario” nel senso deteriore del termine: tra le sue pagine c’è poco spazio per una prevedibile e fastidiosa retorica di parte – non male, no, per un libro evidentemente di parte? – ma ce n’è molto per l’argomentazione, cui fa da ottimo complemento la ricca bibliografia tematica suddivisa in Saggi Moderni, Saggi del passato, Opere Antiche, Rinascimentali, Barocche e Romanzi moderni e contemporanei. Il pregio del volume, dunque, coincide con la ragione della sua origine, ovvero il racconto il più possibile ordinato, cronologico, consequenziale di una condizione femminile determinata con la stessa influenza da mito e religione, da natura e società, da cultura e letteratura. Come ogni prova di ottima divulgazione che possa dirsi riuscita, non solo il lavoro di Valeria Palumbo non ha nulla di accademico nel senso spregiativo e respingente del termine, ma la sua gradevolezza e scorrevolezza non concedono nulla alla semplificazione o banalizzazione dei concetti. Un libro illuminante e attuale nella sua attenzione per un tema così classico, che proprio tra gli scapoli troverebbe forse i suoi più stupefatti ammiratori.
Cecilia Mariani