di Giampiero Rigosi
La Nave di Teseo, 2021pp. 519
€ 20 (cartaceo)
Se sapesse quanto poco gli importa, ormai, di dio. Quando ha saputo che la fine era vicina, ha perfino provato a riconsiderare le proprie opinioni sulla fede, ma l'intera faccenda - la trinità, il libero arbitrio, la resurrezione dei corpi - gli è sembrata ancora più farraginosa di un tempo. Si è visto come uno che va a mendicare un favore al rappresentante di un partito per cui non ha mai votato. C'è una lista lunga chilometri: mettersi in coda (p. 23).
La mancanza è quella che prova Sergio, regista affermato che vive a Roma e sembra abbia ricevuto tutto dalla vita: una bella compagna, una bella casa, un lavoro che lo appassiona, una giovinezza ricca di esperienze. Eppure... Eppure, la mancanza alla quale si faceva cenno è quella che si risveglia prepotente in quest'uomo la sera che riceve una telefonata dalla sorella del suo migliore amico, Vitaliano, dalla quale apprende che il compagno di mille avventure del quale ha da anni perso le tracce, è nella fase terminale di una malattia.
Sergio parte così per Bologna, in un viaggio sia fisico che ideale, alla ricerca dell'amico di una vita, ma anche delle motivazioni profonde del loro distacco, della loro giovinezza, delle peripezie vissute assieme, della donna che hanno amato entrambi profondamente, della passione condivisa per il cinema e i libri.
Ed è qui che il lettore scopre il secondo elemento fondante di questa storia: le promesse e la capacità che noi tutti abbiamo non solo di farle, ma anche di mantenerle, perché i due amici tanti anni prima del manifestarsi della grave malattia di Vitaliano hanno giurato di fronte ad un cielo stellato che semmai uno di loro due fosse stato in punto di morte, l'altro lo avrebbe condotto per mano sino alla fine.
E ora Sergio si ritrova a fare i conti con la propria coscienza di uomo e con quella del ragazzo che è stato e che da qualche parte dentro di lui è ancora.
Cos'è l'uomo? Un meccanismo che funziona e prima o poi si guasta, si corrompe, smette di esistere, almeno come consapevolezza di sé. Un congegno che per caso o per errore ha raggiunto un livello di autocoscienza così elaborato da indurlo a chiedersi il senso del suo essere al mondo. Un organismo tormentato da domande sul significato della propria vita, sull'esistenza o meno di un'anima che sopravviva alla morte fisica, sulla presenza di un dio, creatore e giudicante, o semplice osservatore, o perfino disinteressato alla sorte umana, ma pur sempre un essere a un livello spirituale più alto e quindi inafferrabile (pp. 455-456).
E la sconfortante impressione che l'immaginario visivo di tutti quei filmaker più o meno amatoriali sia appiattito sul linguaggio dello spot pubblicitario o del videoclip. Oppure le cose non stanno così. Forse è lui a essere troppo vecchio per apprezzare la creatività collettiva che il web e il progresso tecnologico consentono, e non ha neppure l'onestà di Fontana, che almeno ammette di non riuscire a stare al passo con i tempi, pur essendo determinato a restarci aggrappato (p. 147).
Allo stesso tempo ho apprezzato tantissimo lo sguardo di Sergio (che pare essere anche quello dell'autore) sulla città di Roma:
Si rende conto che lui, in questa città che all'inizio lo affascinava e lo spaventava allo stesso tempo, ha finito per sistemarsi meglio di tanti romani, senza perdere quel distacco da forestiero che ancora gli permette, come oggi, di stupirsi e di lasciarsi ammaliare (p. 156).
Chiediamoci cosa avrà pensato Orfeo nell'attimo in cui lui e Euridice si sono scambiati quell'ultimo sguardo. Avrà compreso che il passato non si può riavere e che il suo compito era accettare il destino? O sarà risalito in superficie senza capire il motivo del richiamo di Euridice, con la frustrazione e la rabbia di chi, dopo avere affrontato tante difficoltà, è costretto ad ammettere di aver fallito? (p. 463)
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