Qualche giorno fa Serena Alessi ha raccontato L’istante largo, esordio narrativo di una penna che ha già scritto e sa scrivere molto bene, quella di Sara Fruner. Ospitiamo oggi l’intervista che l’autrice - traduttrice, insegnante, originaria di Riva del Garda e newyorkese di adozione - ci ha gentilmente concesso.
Ti definisci prima poeta e poi scrittrice, perché?
Mi definisco poeta perché poeti si nasce. Scrittori, lo si può diventare. La poesia ti permette di avvicinarti alla realtà in modi del tutto alternativi, sorprendenti, obliqui. Questo può accadere anche in prosa, ma la prosa è centrifuga, tende a espandersi, mentre la poesia ha un’agenda nucleare: ti permette di concentrare tutto in un verso, di far riverberare l’intero universo dentro il guscio di una singola parola. Oltre a essere fulminea, l’intuizione in poesia ti si offre musicale. E proprio questo, musica, fulmine, rivelazione nel mistero, sono gli elementi che il poeta sente e coglie, e che prova a restituire al mondo. Lo scrittore ha altri piani in testa.
L'istante largo è un libro che tiene mirabilmente insieme tanto eppur si legge scorrevolmente. Questo può voler dire solo che c’è stata una grande fatica nello scrivere, è stato così? Come hai tenuto insieme tutto?
Sì, la fatica più grande è stata proprio tenere insieme tutti i fili: intrecciarli senza farli ingarbugliare. Ma questo penso dipenda dal tipo di scrittore che credo di essere, più che dal romanzo in sé. Non mi interessa raccontare una storia. Mi interessa raccontare più storie. E non per ansia di inclusione, ma perché le storie, se le guardi bene, non sono mai singole, unicellulari. Sono sempre collettive, plurime, proprio come l’essere umano, che è la somma unica d’infinite componenti. Proliferano, le storie, e la prosa è il tessuto elastico ideale che si espande per comprenderle tutte. Quindi non volevo raccontare solo di Macondo e di sua nonna, per quanto soggetti ricchi, intriganti. Volevo percorrere anche tutte le strade che vedevo dipartire da loro.
A proposito di madri, tu non scrivi sempre nella tua lingua madre. Parlaci se ti va del tuo vagare dall’italiano all’inglese e viceversa. Sono lingue usate per scopi diversi?
Oscillare fra le due lingue che ho in bocca mi permette di essere in continuo movimento a livello creativo — poetico, nello specifico. La considero condizione privilegiata, per quanto non sempre di facile gestione. Ogni lingua mi consente di esplorare spazi emotivi diversi grazie agli strumenti sonori e semantici che mi offre. Non decido mai a priori, ora scrivo una poesia in italiano, ora scrivo una poesia in inglese: una poesia nasce direttamente in italiano o in inglese. È la parola che decide per me, quella parola. E il mondo che schiude — con la sua musica, con le sue sfumature di significato — non è certo il mondo che schiuderebbe quella stessa parola nell’altra lingua. Quindi, forse, più che di scopi diversi, parlerei di possibilità diverse, che mi seducono.
Il tuo libro “puzza” di adolescenza, di scarpe da ginnastica usate ogni giorno e felpe sudate. Perché quell’età, oltre che per l’evidente uso narrativo della “formazione”? E una curiosità: hai avuto feedback da lettori adolescenti?
Sì, ho sempre avuto in testa l’idea di cominciare il mio percorso nella narrativa con un romanzo di formazione. Ma a prescindere da questo, sono sempre stata — e tutt’ora rimango — molto affascinata dall’adolescenza, con i suoi eccessi, la sua tenerezza, la sua pericolosità. Un’età panica in cui tutto suona apocalittico, definitivo, assoluto. Un tempo ingrato ed eccelso, che fortunatamente passa, ma che, di grazia, rimane sempre impresso — in me, sen altro, molto. Occuparmi di quella di Macondo e della Bea, due ragazzi così simili e così diversi, è stata un’opportunità golosa. Tanto innocente lui, quanto vissuta lei, sono protagonisti di quel tipo di amore a metà fra amicizia e senso che, pur essendo giovanile e incompiuto, è al contempo maturo e totale. Quelle esperienze sentimentali che segnano chiunque, e che parlano a tutti. Così come i legami di amicizia, altro grande motore che si costruisce proprio nell’adolescenza e che è centrale nel romanzo, a tutte le età. In effetti penso a L’istante largo come a un libro transgenerazionale. Ospita tutte le generazioni ed è per tutte le generazioni: adolescenti, anziani, e tutte le età che vi transitano nel mezzo. Ho avuto feedback generosi da parte di lettori adolescenti che si sono molto affezionati a Macondo, alla Bea e al loro mondo. Mi hanno fatto un grandissimo piacere.
Serena Alessi
@serealessi
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