Appunti per me stessa
di Emilie Pine
Rizzoli, febbraio 2021
Traduzione di Ada Arduini
pp. 208
€ 17,00 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
Sai che dovresti sentirti felice, continui a ripeterti «Ora sono felice», ma l’esperienza della felicità in qualche modo diventa artificiale e irreale. Ero sempre a un passo di distanza dalle mie emozioni. E anche lontana da me stessa. (p. 199)
Spesso si permette che questa distanza divenga permanente e ci si aggrappa a una felicità artificiale, proiezione di tante cose che sono altre rispetto a noi.
Appunti per me stessa, primo libro di Emilie Pine che le è valso nel 2018 l'Irish Book Award, è una coraggiosa presa di posizione contro l'irrealtà del sé, un libro che nasce dalla volontà di spezzare il codice del silenzio e di mettersi finalmente a contatto, corpo a corpo, con se stessa guardandosi dentro con coraggio e senza l'ausilio di specchi.
Per farlo la scrittrice, che nella vita insegna drammaturgia allo University College di Dublino, ha bisogno di dire "io".
Ecco che il titolo è già un invocazione al sé (quel "me stessa" così forte e diretto), mentre la parola "appunti" rende l'idea di un laboratorio interiore, di una materia che si trasforma mentre si scrive, perché il sé è ancora in costruzione e non smette mai di formarsi.
È proprio quell'"io", ribadito da un'autrice che scosta il velo e ci introduce nelle stanze della propria vita, che permette ai lettori di prendere parte alla storia di Pine rileggendovi frammenti della proprie.
I capitoli di questo libro - a metà tra il memoir, il saggio e la narrative non fiction - sono sei confessioni. Corrispondono a fasi diverse e cruciali del percorso di Pine, dalla separazione dei genitori ai sofferti tentativi di concepimento intrapresi con il compagno, dagli eccessi giovanili alla presa di coscienza sul proprio corpo di donna, dalle violenze fisiche e psicologiche subite alla scoperta delle tante forme d'amore che la circondano.
Dire che Appunti per me stessa è un testo da declinare solo al femminile sarebbe troppo poco. Il femminile è molto presente e possente in questa narrazione perché Emilie è una donna e fa esperienza del mondo come la fanno le donne, cioè spesso provando una sensazione di inadeguatezza e di incertezza, cercando di saltare ostacoli che altri hanno predisposto lì per loro, e con un senso di clandestinità emotiva che si può abbattere solo sviluppando dentro se stesse fierezza, onestà, sicurezza.
Il corpo femminile è protagonista di un diario privato che diventa pubblico nel momento in cui da un singolo corpo si passa ad abbracciare con lo sguardo tutti gli altri, tutti i nostri corpi di donne nascosti, violati, associati alla sofferenza:
Mentre penso al rapporto tra corpi e silenzio, ricordo quando il dolore era qualcosa di cui parlare, quando i nostri corpi erano oggetto di esame scientifico. All’età di sette anni arrotolavo la gamba dei pantaloni e raccontavo le mie cicatrici: c’erano un morso di cane, quella che mi ero fatta saltando giù dal tetto della rimessa, quella dovuta al chiodo arrugginito che aveva infettato la ferita. Le cicatrici dell’infanzia non erano soltanto tracce di dolore, ma medaglie al merito, la prova tangibile di un coraggio interiore. Ma da adulti le nostre biografie sono diventate storie razionali in cui ci concentriamo su ciò che abbiamo nella testa e ignoriamo ciò che è iscritto nei corpi. Potremmo metaforicamente arrotolarci le maniche e parlare del nostro cuore spezzato, della nostra tristezza o del nostro stress. Ma i nostri corpi tacciono e io credo che questo valga sia per gli uomini che per le donne. È arrivato il momento di accettare i nostri corpi come facevamo nell’infanzia, in quanto segni che dicono chi siamo, cosa abbiamo fatto. (pp. 129-30)
Corpi e silenzio, dunque, corpi che sanguinano e si vergognano per questo.
Di femminile c'è anche lo sguardo della sé di cinque anni che assiste impotente alla distruzione del rapporto tra i genitori e che anche da adulta si sente ancora quella bambina che fa i capricci per racimolare amore, oppure della sé quarantenne che cerca di diventare madre, mentre la corsa alla fertilità acquista sempre più la forma di un lutto.
L'esperienza della maternità "mancata", in particolare, è ancora un tabù nella nostra società che va condiviso e analizzato per liberare le donne dalla sensazione di essere imperfette e difettose:
Ma la verità, quello che ho accettato, è questa: posso provare ad avere un figlio, posso fallire ogni mese ed essere infelice. Oppure, posso non provare ad averlo e non fallire ogni mese. Il numero di bambini che avrò avuto resta lo stesso: zero al quoto. Ma il risultato sarà completamente diverso. Io scelgo di essere felice. È una felicità imperfetta, non scevra di dolore. Contiene un lutto, ma per questo è ancora più forte. (p. 87)
Appunti per me stessa è indubbiamente un libro che fa bene alle donne, ma per me va oltre: fa bene a tutti gli esseri umani che per troppo tempo hanno negato intere parti di sé nel tentativo di compiacere e di farsi approvare. A loro e ai loro sforzi va l'omaggio della scrittrice. A loro va l'invito a buttare su carta appunti per se stessi.
"Scrivo in modo da poter finalmente essere presente nella mia vita. Scrivo perché è la cosa più potente che riesco a pensare di fare". E dalla potenza dolorosa della scrittura emerge qualcosa di straordinario, fragile e forte per cui vale la pena combattere: il nostro vero io.