«Fruscii interiori di un sentimento di pietosa partecipazione», su "Amicizie Profane" di Harold Brodkey

 

Amicizie profane di Harold Brodkey




Amicizie profane
di Harold Brodkey
Fandango Libri, 2021

cura e traduzione di Delfina Vezzoli

pp. 464
25,00 € (cartaceo)
13,99 € (ebook)

 

Tra i pregi maggiori che uno scrittore possa avere c’è quello di far discutere del proprio stile, delle regole implicite presenti nelle sue opere, di far riflettere sulla scrittura in generale, di portare l’attenzione su “forma” e “formatività”, come direbbero Pareyson ed Eco, e di generare un dibattito intorno alla sua opera o all’opera in generale. Di creare un mondo illimitato eppure chiuso in un numero limitato di pagine. Tra i difetti più comuni, invece, c’è quello di non riuscire a mantenere per tutto il corso dell’opera – o delle opere – le premesse (promesse) che ha suscitato in lettori più o meno avveduti, di perdersi nei meandri della propria mente senza riuscire a portare nessuno con lui, di far sfaldare il mondo da lui creato nell’atto di girare una pagina. Harold Brodkey aveva entrambe le caratteristiche, anzi, di entrambe può essere considerato, a ragion veduta, uno dei massimi esponenti. Per molti è stato una promessa sempre sul punto di esplodere ma mai completamente mantenuta, per altri un vero e proprio innovatore, uno di quelli scrittori americani – Roth, Pynchon, DeLillo e Wallace sono i primi altri che mi vengono in mente – che ha saputo liberarsi dell’ombra di Hemingway e del suo machismo. E Amicizie profane, il suo ultimo libro – incompiuto – uscito la prima volta nel 1994 e riproposto adesso da Fandango Libri con la prestigiosa traduzione di Delfina Vezzoli, può essere considerato l’emblema di tutto questo. 

Della figura di Hemingway, in questa opera, non c’è che una presenza vacua e vaga, del rapporto con il suo stile, più conflittuale e angoscioso di quello che può sembrare in una prima analisi della struttura, c’è una risposta oppositiva. Se nella prima parte il suo nome appare tante volte da essere quasi la concretizzazione di un’ossessione, nella seconda – più corposa, che gira intorno a un’altra ossessione del protagonista-narratore, Onni – la presenza del grande scrittore evapora. Del machismo di Hemingway non rimane nulla, non rimane nulla nemmeno del suo celebre “iceberg”, del suo modo di impostare i dialoghi, dei suoi temi, del suo vitalismo e del suo stile in generale. 

Questa è un’opera di uno scrittore ormai anziano, costruita sul passato, sull’«ostinata onnipotenza del tempo», sul ricordo di un’emozione e sulle «intermittenze dell’attenzione» nella vita di tutti i giorni. Ogni evento narrato prende avvio da un ricordo, dall’ossessione sensuale per una città – Venezia, vero e proprio personaggio della narrazione con i suoi colori, i suoi rumori, le sue maschere e il suo barocco –, dall’emozione giovane – è un vitalismo giovanile molto diverso da quello hemingweyano, più attento ai sentimenti e meno alle azioni –, che fonda ogni pagina e che la struttura anche a livello stilistico. La narrazione, proprio per mezzo del ricordo nebuloso, cresce, cresce in un modo tortuoso, labirintico, ridondante, barocco, caratterizzando lo stile di scrittura in modo particolare – considerando anche la data di uscita –, anche se non unico. Così si trovano, specialmente nelle descrizioni, pezzi di un decadentismo primonovecentesco, simile a quello che si potrebbe trovare nel Thomas Mann dei romanzi brevi, ne La morte a Venezia o in Tonio Kröger. Basti pensare a

Un uccello gorgheggia una canzone molto elaborata. E bianchi gabbiani con ali a falcetto e altri, con ali lievemente ricurve come scimitarre, sfrecciano nella luce gialla e salmone che li macchia. Planano tra le ombre che sovrastano le acque luccicanti e increspate della Giudecca sciabordante, che a ovest, in parte in ombra in parte illuminata, rifulge in una foschia di luce che dà all’imbrunire la parvenza del giorno. (p. 15)

Contemplo la facciata del palazzo. Mi incammino in quella direzione, e il mio cuore sposta il suo peso mentre entro nella luce chiara. A Venezia mi sento di casa nella magniloquenza amorale della luce. (p. 13)

o, ancora,

Caddi in un’interiorità rosea e grigiastra di sensazioni imbarazzate. Traboccavo di emozioni minori, simili a vestiti sporchi del tipo che metti solo per lavorare in garage o in cortile, o per andare fuori a giocare, di quelli che non indossi certo per pavoneggiarti in società. (p. 140)

L’intreccio è semplice, la storia si snoda nella memoria del protagonista-narratore-scrittore non in maniera lineare, ma sviluppando di volta in volta temi precisi, che figurano come titoli dei vari capitoli. È la storia di una crescita – anche artistica, sulla scia dei Bildungsroman o anche, più propriamente, emotiva, sulla falsa riga del Boccadoro di Hesse –, di un’amicizia che si fa sempre più intima fino a sfociare in un rapporto omoerotico che lascia poco al non detto e non fatto e che trova nella ridondanza e nella ripetizione ossessiva degli atti sessuali – sempre narrati come fosse la prima volta, col “sussulto del cuore” tipico dei romanzi sentimentali – la sua struttura più autentica.

È la continua ricerca, ossessiva e frammentata, di un assoluto, di un sentimento che vada al di là delle cose, che riesca a mostrare la «vera natura» delle cose, la vera natura dell’amore, partendo dal ricordo di un’amicizia profana, modello che «potrebbe anche non essere un vero esempio di amore». 

Ma, in definitiva, il fatto che si parli del suo stile di scrittura, della sua forma narrativa, non può essere considerato un punto di arrivo per un autore, non può essere considerato l’esplosione del suo talento?


Giorgio Pozzessere