di Federico Baccomo
Mondadori, gennaio 2021
pp. 312
€ 18 (cartaceo)
€ 9,99 (Ebook)
A ogni nuova pubblicazione di Federico Baccomo si accompagna la sorpresa: pochi autori riescono come lui a reinventarsi ogni volta sulla pagina, sfuggire le etichette, cambiare direzione e sperimentare, tenendo le redine della narrazione con abilità. Con Che cosa c’è da ridere, da poco in libreria per Mondadori, ecco che lo fa di nuovo e con una storia che di primo acchito sarebbe sembrato facilissimo incasellare – dato anche il periodo scelto per la pubblicazione, intorno al giorno della Memoria – per poi rendersi conto pienamente a fine lettura che ci ha bonariamente fregati anche questa volta. Le etichette stanno strette a Baccomo che sembra sensibile solo alla cosa più semplice e assoluta per uno scrittore: la storia. E per raccontarla, in ogni suo romanzo finora pubblicato, piega la lingua a proprio piacimento, gioca con le parole e costruisce mondi perfettamente plasmati sul nostro, mette in scena miserie e meschinità umane ma sempre con sguardo benevolo, mai giudicante, racconta i vinti, uomini deboli, donne violate, esseri umani in crisi, che si muovono dentro spazi urbani e dinamiche ben riconoscibili.
Quello che crea questa volta sulla pagina però è qualcosa di più potente, complesso, una materia con cui è difficile confrontarsi, specie dall’angolazione scelta. Baccomo mescola abilmente ricostruzione storica e invenzione letteraria ispirandosi a fatti e persone reali per raccontare qualcosa di inaspettato che, volendo ridurre all’essenziale, rappresenta il desiderio di non perdere la propria umanità dentro l’orrore dell’Olocausto. Ciò che prende vita sulla pagina è una storia che si discosta dalle tradizionali narrazioni intorno a questo tema, eppure realmente accaduta anche se in forma differente, e rappresenta una sfida, tanto per l’autore che per noi lettori. Perché come si fa a raccontare la storia di un comico ebreo immerso nell’orrore della guerra e dei campi di sterminio? Come si fa a rendere vividi e reali i desideri di un ragazzo che sogna soltanto di far ridere il proprio pubblico, immaginando una vita sul palco? E, soprattutto, come si fa a immaginare un palco proprio lì, al cuore dell’orrore, il pubblico da intrattenere quegli stessi aguzzini che insieme a tutti gli altri lo hanno perseguitato, imprigionato, umiliato, ridotto a un numero, a niente?
Si può fare con una sensibilità non comune, con rispetto per quel che di vero ha dato avvio all’invenzione narrativa, mischiando abilmente tragedia e commedia. E si può farlo raccontando le aspirazioni della gioventù e la paura di un mondo che crolla, la scoperta dell’amore e la vita negata, l’orrore e la quotidianità, per mezzo di una voce ironica, attenta a guidare il lettore – anche il più giovane – dentro una storia che non ha pretese di fornire tutte le risposte ma, cosa ben più importante, di mostrare il dubbio, le contraddizioni, mettendoci di fronte a interrogativi che difficilmente troveranno una risposta univoca.
Come si può raccontare questo tipo di storia? È giusto parlare del dramma della Shoah in questi termini? Ci sono forme e storie che non sono adeguate? Domande che ci accompagnano durante tutta la durata della lettura e anche oltre, che sono lo specchio di quegli stessi dubbi dei protagonisti:
Fare spettacolo quando il mondo stava facendo la muffa, fare spettacolo dentro una cinta di filo spinato, con le guardie sulla torretta che aspettano solo il momento di spararti nella schiena, fare gli animali da circo, le scimmiette ammaestrate, far ridere i tuoi compagni maledetti dalla sventura, ma soprattutto far ridere i tuoi nemici, i tuoi aguzzini, farli ridere nel posto in cui non si dovrebbe fare altro che piangere, come si fa a concepire una cosa così? (p. 188)
Una storia diversa, difficile da raccontare e comprendere, ma che è essa stessa parte di un passato che dobbiamo continuare a ricordare, testimoniare, anche attraverso le storie marginali, complicate, scomode perfino.
[…] stavano per essere protagonisti di una storia che sarebbe stato difficile non soltanto raccontare, ma perfino capire. Fuori da quella stanza, dopo quella sera, la gente avrebbe parlato di vergogna e di follia, avrebbe dichiarato la sconfitta degli ebrei di Westerbork, ma lì dentro, in quell’aria pesante e calda, nell’attesa dell’inizio dello spettacolo, la vita era un seme che stava cercando di mettere radici nel terreno più arido e duro. (p. 199).
La vita. Sembra impossibile, ma nel romanzo di Baccomo c’è anche tanta, tantissima vita, anzi forse c’è soprattutto questo. C’è Erich Adelman, il ragazzino ebreo che trova la sua vocazione e il proprio modo per dire «guardatemi, ci sono anch’io», su palchi polverosi in una Berlino che si avvia verso la distruzione e la violenza; c’è la scoperta dell’amore, la stupefacente Anita, incontrata e persa innumerevoli volte; ci sono i sogni, la propria identità, i desideri.
Ci sono, anche, la famiglia e un rapporto complesso con il padre, vedovo inconsolabile che gli addossa la colpa per la perdita, ma è proprio da qui che nasce l’ironia di Erich, la sua comicità aderente a chi è, nonostante le critiche e le incomprensioni.
Quel «guardatemi, ci sono anch’io» che contrasta violentemente con la necessità di nascondersi, fuggire.
È impossibile ovviamente ignorare il contesto entro cui questa storia si sviluppa, ma se ricordare oggi è quanto mai doveroso, ugualmente importante è il dialogo con la contemporaneità: se quell’orrore indicibile non si dovrà ripetere è necessario allora cogliere tutti i segnali di pericolo intorno a noi, le paure, il sospetto, da cui scaturisce la violenza. È proprio questa riflessione sul contemporaneo a mio avviso tra gli spunti più importanti del romanzo, votato non soltanto a rappresentare un aspetto meno noto e controverso della tragedia della Shoah, ma che si spinge anche oltre i confini del tempo e dello spazio storico per osservare il mondo di oggi, le paure, la rabbia, gli estremismi, il sospetto nei confronti di chi è diverso. E da cui nascono nuove forme di oppressione, isolamento, violenza:
[…] un campo profughi, uno di quelli che ancora oggi vengono chiamati centri di accoglienza, che sono campi fatti un po’ per sistemare i rifugiati ma un po’ anche per metterli nella condizione di non dar troppo fastidio alle popolazioni locali. (p. 157)
Eccolo qui il piccolo miracolo di Baccomo, cantastorie sensibile e attento, che consegna al lettore una storia di dolore e comicità, di morte e di vita. Di memoria. Di speranza.
Di Debora Lambruschini