di David Leavitt
SEM, 18 febbraio 2021 (prima ed. 1984)
Traduzione di Fabio Cremonesi
pp. 240
I luoghi comuni sul racconto sono innumerevoli. Il più amato, sul podio accanto al sempreverde classico secondo cui sarebbe un genere che “si ama o si odia”, vuole il racconto come una forma narrativa in cui ogni riga, ogni parola deve essere limata fino alla perfezione. Ogni volta che sento qualcuno ribadire questo assioma mi immagino uno scrittore di romanzi monumentali, un Proust, un Dostoevskij o un Tolstoj, nell’atto di rendersi conto di aver scritto una pagina orrenda, per poi rilassarsi al pensiero che tanto loro non hanno bisogno della perfezione, non stanno mica scrivendo un racconto. Che non sia così è dimostrato dal fatto che un buon scrittore di racconti è praticamente sempre anche un buon scrittore di romanzi – quale miglior esempio di Dostoevskij e Tolstoj? Lo scrittore, infatti, tende alla perfezione per antonomasia, e lo fa in ogni momento in cui sceglie una parola rispetto ad un’altra, che sia in cinquecento pagine o in cinque. Quello che cambia davvero rispetto alla scrittura di un romanzo, quello che fa guadagnare al racconto la classificazione di genere a sé stante a prescindere dalle tematiche trattate, è proprio il processo tramite cui si arriva a quella perfezione. Se il romanzo la ricerca per accumulazione, come la melodia prodotta da un’orchestra, il racconto ci arriva per sottrazione, asciugando una vicenda fino all’osso, ricercando la sua struttura più intensa, più evocativa, più simbolica. Un assolo di violino. Ed è nella costruzione di queste spettacolari melodie solitarie che Leavitt si distingue.
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I luoghi comuni sul racconto sono innumerevoli. Il più amato, sul podio accanto al sempreverde classico secondo cui sarebbe un genere che “si ama o si odia”, vuole il racconto come una forma narrativa in cui ogni riga, ogni parola deve essere limata fino alla perfezione. Ogni volta che sento qualcuno ribadire questo assioma mi immagino uno scrittore di romanzi monumentali, un Proust, un Dostoevskij o un Tolstoj, nell’atto di rendersi conto di aver scritto una pagina orrenda, per poi rilassarsi al pensiero che tanto loro non hanno bisogno della perfezione, non stanno mica scrivendo un racconto. Che non sia così è dimostrato dal fatto che un buon scrittore di racconti è praticamente sempre anche un buon scrittore di romanzi – quale miglior esempio di Dostoevskij e Tolstoj? Lo scrittore, infatti, tende alla perfezione per antonomasia, e lo fa in ogni momento in cui sceglie una parola rispetto ad un’altra, che sia in cinquecento pagine o in cinque. Quello che cambia davvero rispetto alla scrittura di un romanzo, quello che fa guadagnare al racconto la classificazione di genere a sé stante a prescindere dalle tematiche trattate, è proprio il processo tramite cui si arriva a quella perfezione. Se il romanzo la ricerca per accumulazione, come la melodia prodotta da un’orchestra, il racconto ci arriva per sottrazione, asciugando una vicenda fino all’osso, ricercando la sua struttura più intensa, più evocativa, più simbolica. Un assolo di violino. Ed è nella costruzione di queste spettacolari melodie solitarie che Leavitt si distingue.
Ballo di famiglia è l’opera d’esordio di David Leavitt, pubblicata per la prima volta nel 1984, quando l’autore aveva appena ventitré anni. Nella prefazione scritta dall’autore nel gennaio 2021 appositamente per questa edizione italiana, una ritraduzione a cura di Fabio Cremonesi edita da SEM, Leavitt ricorda l’importanza che ha avuto per lui e per la sua successiva carriera la controversa scelta di esordire con una raccolta di racconti: tra i molti agenti che lo avevano contattato per accompagnarlo nella stesura del suo libro d’esordio in seguito all’enorme successo del suo primo racconto Territorio sul New Yorker, solo uno lo sostenne nella sua decisione. Solo uno aveva saputo riconoscere nella scrittura di Leavitt la sua straordinaria familiarità con il mezzo del racconto. Una prossimità innata, una scelta consapevole del proprio habitat letterario prediletto.
“Per tutta la vita, il romanzo mi ha stupito e affascinato – mi rende umile e mi stimola – eppure il racconto resta sempre il mio primo amore” (p. 8).Nei racconti giovanili di Leavitt, si nota infatti una struttura ricorrente che l’autore padroneggia alla perfezione, nonostante la giovanissima età. Famiglie borghesi, famiglie qualunque, famiglie biologiche e famiglie scelte rappresentano la cornice ideale in cui incastonare frammenti di vita sperimentati da Leavitt stesso. Momenti, emozioni, disperazioni e disinganni tanto precisi quanto indicibili vengono lanciati al lettore come messaggi in bottiglia, incarnati da personaggi a cui è impossibile affezionarsi, abbozzati solo nei loro lati negativi, che diventano simboli per rappresentare la vita infelice nei sobborghi perbene di città americane senza nome. Se i centri urbani come New York e Los Angeles vengono solo nominati nei racconti come entità a cui tendere, luoghi in cui ci si trasferisce per scappare dal “borgo natìo”, le vicende si svolgono sempre in luoghi innominati, in cui ogni lettore può rivedere la propria città natale.
“Insomma, ho continuato a scrivere racconti. Pensavo alla disperazione, e pensavo a come descrivere la disperazione in un’opera narrativa senza mettere in fuga il lettore.“ (p. 8)
Case e giardini identici l’uno all’altro, ciascuno con l’immancabile piscina che determina lo status symbol della borghesia americana, diventano il palcoscenico su cui Leavitt proietta la disperazione umana nella sua forma più comune e dunque anche più condivisibile, che prende la forma di divorzi, malattie fisiche e mentali, morti improvvise, conflitti familiari e sessualità taciute. Nell’introduzione, Leavitt svela quanto questi temi che ricorrono e si incrociano provengano dalla sua esperienza: la malattia della madre, l’omosessualità capita solo dopo la scrittura del suo primo racconto, Territorio, che non a caso troviamo in apertura di questa raccolta. In quasi ogni racconto c’è una frattura causata dall’omosessualità taciuta o non accettata di un personaggio, dimostrando ancora una volta la vita vera che pulsa dentro questi racconti giovanili, una luce rifratta da un prisma, resa irriconoscibile e meravigliosa. I luoghi in particolare si riconnettono all’esperienza di vita dell’autore, ma, significativamente, è solo dopo aver abbandonato Roma, la California, New York che Leavitt riesce a fare di questi luoghi vivi una cornice per le sue storie.
Dunque in questi racconti, Leavitt descrive, a soli ventitré anni, la sua idea di letteratura: vita trasfigurata, cristallizzata, e ridotta alla sua essenza. L’esperienza vissuta diventa così materia letteraria aggirando però il pericoloso baratro del memoir, e il fine ultimo della ricerca dello scrittore diventa far risonare nel lettore quel nucleo vivo e ineffabile, l’intensità della disperazione umana, che non sarebbe possibile descrivere in cinquecento pagine, ma forse in cinque si può in qualche modo intuire.
Marta Olivi
Dunque in questi racconti, Leavitt descrive, a soli ventitré anni, la sua idea di letteratura: vita trasfigurata, cristallizzata, e ridotta alla sua essenza. L’esperienza vissuta diventa così materia letteraria aggirando però il pericoloso baratro del memoir, e il fine ultimo della ricerca dello scrittore diventa far risonare nel lettore quel nucleo vivo e ineffabile, l’intensità della disperazione umana, che non sarebbe possibile descrivere in cinquecento pagine, ma forse in cinque si può in qualche modo intuire.
Marta Olivi
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