"Il silenzio" di Don DeLillo: se all'improvviso tutti i dispositivi digitali si spegnessero, che cosa ci resterebbe da provare?

Il silenzio Don DeLillo

 












Il silenzio
di Don DeLillo
Einaudi, febbraio 2021

Traduzione di Federica Aceto

pp. 112
€ 14 (cartaceo)
€ 7,99 (ebook)


A quel punto successe qualcosa. Le immagini sullo schermo cominciarono a tremolare. Non era una normale distorsione del segnale: c’era un senso di profondità, forme astratte che si componevano per poi dissolversi secondo una cadenza ritmica, una serie di unità elementari che davano l’impressione di proiettarsi in avanti per poi retrocedere. […] E poi a un certo punto lo schermo diventò nero. (p. 24)
Sta tutto qui, nel cuore nevralgico della narrazione da cui si irradia tutto il resto, il nuovo attesissimo e già molto discusso romanzo di Don DeLillo. In poco più di cento pagine intesse la storia e riversa sulla pagina tematiche e spunti ricorrenti della sua produzione letteraria, a partire da quella sensazione di costante paranoia con cui ha incantato i lettori, da Rumore bianco fino al recente Zero K, passando per Cosmopolis e L’uomo che cade, solo per citare i suoi romanzi fondamentali. E per una volta mi trovo pienamente d’accordo con quanto riportato in quarta di copertina: «viviamo, disperati e felici, in un mondo delilliano», solo, forse, non ne siamo pienamente consapevoli. 

In questi tempi incerti, il maestro del postmoderno statunitense, mette in scena una delle nostre paure profonde: il blackout tecnologico, un silenzio totale e del tutto improvviso. Ciò che intriga e spiazza il lettore è la narrazione stessa con cui DeLillo costruisce – ma forse sarebbe più idoneo dire “de-costruisce” – la storia, che si fa frammentata, inaffidabile, parziale. Ambientata in un futuro prossimo, il 2022, all’indomani della pandemia mondiale con cui attualmente ci troviamo a fare i conti, Il silenzio mette a nudo la vulnerabilità delle nostre vite, la dipendenza dalla tecnologia, quella sorta di “tossicodipendenza” dal digitale di cui non siamo fino in fondo consapevoli. Ma, soprattutto, la profonda influenza che tale dipendenza ha avuto sul nostro modo di guardare e sentire il mondo, relazionarci con gli altri, sviluppare la nostra personalità. Ogni cosa con DeLillo è portata all’estremo, ma lo scostamento dalla realtà possibile non è poi così profondo e proprio in questo l’inquietudine con cui lo leggiamo. Dell’intreccio non voglio anticipare nulla, al lettore il piacere della scoperta, anche perché non è negli sviluppi della vicenda – se pure ce ne fossero – che risiede il senso di questa storia, che a mio avviso è tutto racchiuso invece nelle innumerevoli domande che ne scandiscono la narrazione. Domande che restano quasi sempre prive di risposta e che sembrano rivolte direttamente a noi lettori, tale è la portata del nostro coinvolgimento in questo viaggio delilliano da non poter di certo restare fuori, indifferenti, qualunque sia il nostro grado di dipendenza tecnologica.
Le reazioni dei protagonisti di fronte al buio improvviso sono quasi surreali, prive di ogni pragmatismo, ma riflettendoci bene risultano davvero efficaci nel rappresentare la loro sensazione di disorientamento, fra teorie complottistiche, paure recondite, monologhi filosofici, attonimento. Non è intento dell’autore fornire risposte, farci da guida in questo buio e silenzio, piuttosto sembra farsi testimone di quanto sta accadendo, in una sorta di contemporaneità tra narrazione e reale, in cui per sua natura manca la distanza storica per interpretarla. Possiamo solo osservare, interrogarci, vivere insieme ai personaggi al margine del delirio e guardare come ogni cosa sembra andare in pezzi.

DeLillo non demonizza la tecnologia, il progresso, piuttosto ne mette in luce la nostra incapacità di prenderne la giusta distanza: 
 A quanto pare tutti gli schermi, ovunque, si sono svuotati. Cosa ci resta da vedere, da sentire, da provare? (p. 70)
Senza i nostri schermi, senza la rete a dirci cosa desiderare che cosa ci resta? È forse la fede assoluta nella tecnologia a fregarci irrimediabilmente, come i protagonisti di questa storia incapaci di reagire in maniera pragmatica, perdendosi invece in vaneggiamenti, qualcuno scegliendo la reclusione, altri rifiutando di confrontarsi con quello che sta accadendo fuori, alcuni perfino sostituendosi alla macchina, ormai priva di vita, incapace di spezzare l’incantesimo. 
Posso dirvi questo. Di qualunque cosa si tratti, quello che è successo ha messo fuori uso la nostra tecnologia. La parola stessa mi pare obsoleta, persa nello spazio. Dov’è la fede nell’autorità dei nostri device sicuri, delle nostre capacità di criptaggio, dei nostri tweet, dei troll e dei bot. Ogni cosa nella datasfera è soggetta a distorsione o furti? E a noi non resta che starcene seduti qui e piangere per il nostro destino? (p. 53)
Il silenzio tecnologico e ciò che ne deriva, la situazione di pericolo e incertezza in cui i personaggi si trovano, è anche per DeLillo l’occasione di mettere a nudo dinamiche di coppia e relazioni di cui colpisce, fra le altre, la tenerezza della quotidianità, di un rapporto talmente consolidato da chiedere all’altro che cosa dovremmo provare di fronte a un pericolo: in quel «Abbiamo paura?» di Tessa rivolto al marito Jim mentre l’aereo su cui si trovano sembra stia precipitando – scopriremo presto proprio per via dell’improvviso blackout – si avverte tutta la forza di un legame fatto di consuetudine, familiarità, senza dubbio di incomprensioni e mancanze, ma anche di abitudine l’uno all’altro. È solo una delle molteplici chiavi con cui si può entrare in questo libro minuscolo eppure pieno di spunti che, come si accennava, insinua molte domande nel lettore. 

È interessante, infine, un certo grado di similitudine fra gli eventi narrati e la realtà della pandemia che stiamo vivendo, senza a mio avviso volerne fare a tutti i costi materia narrativa. Ma c’è un passaggio in cui mi è stato impossibile non pensarci, nella reazione che qualcuno prova di fronte alla domesticità obbligata di questi mesi, al senso di protezione – nel nostro caso ben giustificato – che la casa ha assunto nella crisi attuale: 
La gente ricomincia a farsi vedere nelle strade, con una certa cautela all’inizio, e poi sulla scia di un senso di liberazione, tutti camminano, guardano, si interrogano, donne e uomini, drappelli casuali di adolescenti, tutti che si accompagnano vicendevolmente mentre attraversano l’insonnia di massa di questo tempo inaudito. E non è strano che certi sembrino aver accettato questa sospensione, questo guasto? Forse è qualcosa che hanno sempre desiderato a livello subliminale, subatomico? Alcune persone, sempre e solo alcune, un numero minuscolo di abitanti umani del pianeta terra, il terzo pianeta più vicino al sole, regno dell’esistenza mortale. (p. 68) 
Le domande, ancora, che non trovano risposta sulla pagina, perché non è compito dell’autore in questo caso fornircele. A lui il dovere di porre quelle giuste, quelle più scomode.