I poteri forti
di Giuseppe Zucco
NNE, febbraio 2021
pp. 176
€ 17 (cartaceo)
€ 7,99 (ebook)
«Ma non starai mica leggendo un libro sulla politica? Di questi tempi è una punizione!»
Tra una pausa e l’altra di lavoro, tra caffè imbevibili e chiacchiere di circostanza, I poteri forti di Giuseppe Zucco (NN Editore) hanno depistato il primo sguardo dei colleghi lì dove il potere è ormai solo mera affermazione politica e non più forza immaginifica, sensoriale o spirituale.
Poteri, quelli di Zucco, srotolati in cinque lunghi racconti, infilati nel cemento e nello strombazzamento di città senza nome, eppure così familiari. Non vi è un tempo, non vi sono nomi, non vi sono confini geografici. Tuttavia, il tutto è scandito con ansia e desiderio di realizzare un immediato presente. Un fugace sguardo al futuro di progetti incerti. Al ciò che è stato è meglio non pensarci, troppo doloroso e scellerato, troppo dolce e rassicurante: «La grande pira del passato ormai dissolto in cenere» (p. 110).
Tutto ha inizio in medias res, in cui il lettore viene catapultato in un subitaneo qui e ora, e non sa esattamente cosa dovrà affrontare, dal momento che gli stessi protagonisti senza generalità sembrano essere ignari dei minuti a seguire della loro vita. Solo i poteri forti riescono a tracciare per loro un sentiero da calpestare e magari da ripercorrere ancora e ancora; poteri inesplicabili, generati da un desiderio ossessivo, a volte governabile, altre incontenibile. Il sesso, il cibo, la volontà di suicidarsi in un elegante abito, la bramosia di mostrarsi per ciò che si è diventati, una salvezza di sé dinanzi a se stessi a tutti i costi, il ricordo di un pasticcino, l’amore, la condiscendenza involontaria, la paura, la maledizione dell’adolescenza. Queste le strade trafficate di Giuseppe Zucco, che rigano il veloce fluire del non tempo e del non luogo.
Cinque racconti, legati da una quasi matematica dualità. In ogni racconto un uomo e una donna, i quali in qualche modo riescono a parlarsi, a tessere una specie di scambio umano o extraumano. E ancora, il cielo e il cemento, la vita e la morte, il sonno e il sogno, il putridume e le gote rosse di una ragazza, la luce e il buio, la coscienza e l'incoscienza. Sembrerebbe una prosa di contrari e conflitti, ma si tratta di una potente complementarità, dove il trapasso esiste solo se vi è l’esistenza.
«Ancora una volta passarono le immagini di quella gente che annegava e non finiva di annegare. E loro due, masticando, bevendo, guardarono felici il barcone affondato e i cadaveri a braccia aperte nell’acqua, come se fossero le vecchie foto di famiglia. Lei disse che se non ci fossero stati quei morti loro due non si sarebbero mai incontrati. E lui pensò che fosse la cosa più dolce e terribile che avesse mai sentito» (pp. 161-162).
La morte che genera vita e la vita che genera morte. Tutto è un ciclo serrato, da cui non si può più scappare. Si è prigionieri inconsapevolmente di un ingranaggio indefinito e sconosciuto, che non ha nulla a che fare con il contrasto chiarificatore del bene e del male prettamente religioso. Proprio questa indeterminazione può turbare il lettore, i suoi segreti e i suoi desideri.
Chiunque di noi potrebbe essere il protagonista ossessionato dal tatuaggio di “Un ramo spaccato in due”: «Ogni tanto si alzava, andava in bagno, si metteva di profilo davanti allo specchio. Se il ramo spaccato segnava l’inizio di una nuova vita, pensò, avrebbe dovuto comportarsi di conseguenza» (p. 112).
Senza indugio potremmo imboccare l’ombra e correre verso un destino incerto, come l’uomo elegantemente vestito alla ricerca del palazzo migliore da cui lanciarsi.
Il rapporto coniugale di condiscendenza, paura e marciume in “Giuditta” potrebbe essere o diventare il nostro, o delle persone che sostano di fianco a noi sull'autobus aspettato per mezz’ora, rei di un amore adultero e di una relazione ormai marcita un pezzo dopo l’altro.
I poteri forti sono «scommettere sulla virtù degli esseri umani» (p. 61); sono godere del profumo delle ortensie ma sapere che «fluttuano come i capelli di un morto in un’acqua nera» (p. 62).
I poteri forti sono il disagio, l’imbarazzo, la timidezza, la sfrontatezza, la dolcezza non governata che si dissolve come lo zucchero a velo soffiato da un bambino per gioco.
Ma I poteri forti sono anche la luce che esaudisce un desiderio, quello sfavillio che rinnova la «consistenza della strada, delle ortensie, del palazzo, dei palazzi, del colle laggiù, che brillò come un orecchino appuntato sul lobo lucido del cielo» (p. 63).
Nota di merito: la dedizione che NNE mette nella cura delle sue pubblicazioni. In particolare, ne I poteri forti il lettore fa la conoscenza di un'artista insondabile: Julia Malkova.
Olga Brandonisio