Welschtiroler
di Ivana Tomasetti
Ciesse Edizioni, settembre 2020
pp. 267
€ 16,00 (cartaceo)
€ 4,00 (e-book)
La storia è storia, alla luce dei luoghi in cui si svolge. E pochi luoghi come quelli in cui si ambientano le vicende narrate in Welschtiroler esemplificano meglio questo nesso. Partiamo dal titolo: i Welschtiroler sono i cittadini dell’impero austro-ungarico che, alla vigilia della Grande Guerra, abitavano l’attuale Trentino, appunto il Welschtirol, o Tirolo degli italiani.
Non amati dagli italiani perché tirolesi, non amati dagli austriaci perché parlavano la lingua del nemico, come ricorda l’autrice Ivana Tomasetti in epigrafe, i Welschtiroler si trovarono ben presto sulla linea del fronte. Ed è la storia anche dei protagonisti di questo romanzo storico, ispirato alla biografia familiare dell’autrice. Da queste parti (sono di Bolzano e ho nonni veneti e trentini) non sono molte le famiglie che non hanno ricordi diretti della Grande Guerra, proprio perché vissuta al fronte dai loro avi. La lettura di questo romanzo mi ha fatto scoprire che anche il mio bisnonno Leone, originario di Romagnano, sobborgo di Trento, combatté per gli austriaci sul fronte orientale, in Galizia, esattamente come Clemente, padre di famiglia protagonista di Welschtiroler.
Clemente è il marito di Sara e il padre del piccolo Giuseppe. Come i suoi amici, viene mandato al fronte per servire l’imperatore, costretto a lasciare Folgaria, suo paese natio, e la sua famiglia. Mentre Clemente marcia verso Est, la moglie e il piccolo Giuseppe sono costretti allo stesso modo a lasciare Folgaria, nel frattempo divenuta teatro di guerra per la sua collocazione geografica di confine, per recarsi in un luogo ignoto, che si rivela poi essere il campo profughi di Braunau am Inn, in Alta Austria. “Le baracche di Braunau erano scure macchie di eternità. Basse, col tetto appena spiovente, assi piatte di legno, larghe e pesanti. Piallate grossolanamente, facevano emergere schegge che ferivano la pelle e pungevano i pensieri.” (p. 10). Ciò che Sara trova a Braunau è la rappresentazione plastica dell’angoscia, della lontananza dagli affetti e dalla terra natale, un luogo desolato, dominato dalla nostalgia: “Le lacrime erano come l’onda di un lago senza vento, ferma e piatta, quella del lago di Lavarone.” (p. 11).
La condizione esistenziale di questa famiglia divisa dagli eventi della grande Storia è l’incertezza, la dolorosa sospensione di chi non può comunicare regolarmente e vive nell’attesa. Una sorte se possibile ancora più amara tocca a Clemente e a tutti i soldati di lingua italiana che combatterono per l’Austria: “Tutti i trentini erano, per loro degli irredentisti” (p. 19). Venivano considerati dei traditori, erano disprezzati, e la loro lingua schernita. Vicende del tutto simili sono narrate da Paolo Rumiz in Come cavalli che dormono in piedi (Feltrinelli Editore, 2014), con riferimento agli italiani della Venezia Giulia e dell’Istria.
Il piccolo Giuseppe vive una condizione di pari sofferenza commisurata alla sua età, per ciò che può vedere e capire. Deve dimenticare le sue origini trentine e imparare una lingua dai suoni duri che lo allontana sempre più dalla sua terra. Le sue origini vengono fortunatamente mantenute al sicuro dalla madre:
Sua madre restava la vera enclave trentina tra loro, striminzita e solida, non udita dalle guardie. Non dimenticare le tue origini. Non dimenticare Folgaria e quello che sei veramente, a dispetto dei comandi. Era difficile da comprendere. Lui, due anime? No, una soltanto, la più vera e importante, da tenere nascosta, una sorta di ribellione latente, eppure visibile e declamata per il solo fatto di essere lì, di avere occhi trentini. (p. 200)
A questo romanzo storico va il merito di perpetuare una memoria che rischia di perdersi, nonostante le recenti celebrazioni commemorative della fine del primo conflitto mondiale. La storia di Clemente si sovrappone quasi perfettamente a quella del mio bisnonno paterno Leone, come detto combattente in Galizia e come Clemente tornato in patria solo anni dopo la fine della guerra. Il ritorno dalla Cina attraverso l’Oceano indiano, “grigio e tumultuoso”, fu non meno avventuroso degli anni di guerra successivi alla prigionia in Russia. Vista con gli occhi di oggi è una storia così incredibile da superare ogni fantasia. Ma è, insieme, la storia di un ritorno alla vita dopo anni di atrocità e sofferenze. Il nostro tempo, dominato dalla pandemia, è troppo spesso paragonato a una guerra, ma è un confronto probabilmente ingiusto per entità e profondità del dolore causato in ogni dove dalla Grande Guerra e da ogni guerra. Ciò che rende, tuttavia, paragonabili vicende così diverse è il senso di alienazione da sé e dagli altri e, nonostante tutto, il potere veramente sbalorditivo dell’istinto di sopravvivenza, così ben espresso da Ivana Tomasetti nel suo Welschtiroler.
Lidia Tecchiati
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