C’era una volta un paese chiamato Italia che, nel 1882, decise di espandere il proprio dominio nel Corno d’Africa, acquistando il territorio di Assab, in Eritrea. Successivamente, altri tre territori vengo assoggettati al “Bel Paese”: Somalia (1890), Libia (1911) ed Etiopia (1936). Il colonialismo italiano dura fino al 1941, quando gli inglesi subentrano al comando dell'Italia. Quella che normalmente ci viene presentata come una “favola esotica” in cui la presenza italiana viene romanzata attraverso l’idea di un “colonialismo proletario” nei quattro territori africani per limitare l’immigrazione all’estero del popolo italiano con lo scopo di mantenerlo “all’interno” del nuovo “Impero” e attraverso la cosiddetta “missione civilizzatrice” nei confronti dei popoli africani, in realtà altro non è che una delle fasi storiche più violente e disumane che il nostro Paese ha generato ma che, oggi, rifiuta di riconoscere, banalizzando il trauma storico che il colonialismo italiano ha prodotto attraverso l’espressione semplicistica “italiani brava gente”, ancora presente nei nostri testi scolastici. E dato che dimentichiamo (o rimuoviamo?) consciamente il nostro passato, non siamo nemmeno in grado di riconoscere che i più attuali fenomeni di migrazione sono, di fatto, le conseguenze del nostro passato violento e con cui ora la “bianca coscienza” deve necessariamente fare i conti.
In un articolo apparso su Internazionale, Igiaba Scego scrive: «Ma il passato se non lo rielabori ti arriva addosso come un boomerang». Giustamente, Igiaba Scego afferma che la rimozione e la mancata elaborazione di questo passato coloniale non solo tra l’Italia e le sue ex colonie, ma anche più in generale tra Europa e Africa, genera la ripetizione di vecchi schemi, la presenza di antichi stereotipi e la formazione di violente eredità coloniali che trovano oggi nel razzismo, nella discriminazione e nella xenofobia la loro prosecuzione ideologica e ontologica. E se a decolonizzare l’Italia non è la gran parte della popolazione bianca, privilegiata, “nata morta e cresciuta” in suolo italiano, vediamo allora che ci sono degli “altri”, italiani quanto noi, ma con una storia, un passato e un’identità che rivelano una diversa formazione di coscienza storica, etica e civile. Ed è qui che entra in gioco quella parte d’Italia che ha avuto origine dalla diaspora e dalla migrazione dal continente africano a seguito delle vicende coloniali, e che inizia a far sentire la propria voce attraverso una letteratura che, grazie alla pubblicazione di Orientalism di Edward Said nel 1978, possiamo definire postcoloniale. Le prime voci apparse sono, appunto, quelle di Igiaba Scego, Cristina Ali Farah, Gabriella Kuruvilla, Gabriella Ghermandi, Garane Garane e Martha Nasibù, voci che denunciano la violenza coloniale e i suoi più drammatici risvolti nel tessuto sociale italiano. Oggi, assistiamo all’affermazione delle seconde generazioni di queste persone; generazioni che nascono, crescono, vivono, studiano e lavorano in Italia, ma che la società italiana continua a indicare come l’Altro della falsa coscienza bianca italo-europea. Con queste generazioni, la letteratura postcoloniale in Italia prende una svolta nuova, concentrandosi su tematiche quali identità, appartenenza, cultura, corpo, politica, attivismo, questioni di genere e decostruzionismo con lo scopo di decolonizzare un passato coloniale che l’Italia “bianca” continua arrogantemente a negare. In questo contesto, negli ultimi anni sono emerse tre figure di grande rilievo nel panorama editoriale, culturale e politico; tre personaggi che presentano un minimo comune denominatore: sono donne, sono nere e sono scrittrici. Stiamo parlando di Djarah Kan, Espérance Hakuzwimana Ripanti e Oiza Queens Day Obasuyi, tutte e tre pubblicate dalla casa editrice People.
I libri di Oiza Queens Day Obasuyi, Djarah Kan e Espérance Hakuzwimana Ripanti sono testi polisemici e interdisciplinari perché intersecano letteratura, attivismo e critica politico-culturale, risultando spesso di difficile classificazione. Giustamente, per l’appunto: lo scopo di queste tre capaci scrittrici è quello di slegarsi da ogni etichetta, da ogni dogma prestabilito, da ogni stereotipo (esotico, tropicale, sessuale) che il colonialismo ha creato per loro in passato e che continuano a ripresentarsi per colpa della mancata coscienza politica del nostro Paese e della nostra società che dimentica troppo in fretta un passato di dominio, controllo e subordinazione in territorio africano. In particolare, sono tre autrici che scrivono dai margini riguardo i margini e la marginalizzazione di tutti quei soggetti non solo neri, ma anche disabili, non funzionali, non eterosessuali, anticapitalistici, anticolonialistici che, dunque, vengono indicati come “corpi estranei” rispetto alla società bianca italiana.
Ladri di denti di Djarah Kan People, ottobre 2020 pp. 128 € 15 (cartaceo) € 8,99 (ebook) Clicca per comprare il libro |
Cominciamo con Djarah Kan e il suo libro, Ladri di denti. In un’intervista per Vogue, l’autrice spiega il significato profondo di questo titolo di grande impatto: «Trovo che i denti siano una parte fondamentale di noi. Non averli significa non poter comunicare o parlare. Quando qualcuno prova a rubarti i denti, in realtà prova a privarti della tua voce. Ed è così che diventa un ladro di denti, un ladro di voce, di identità, di soggettività.» Ed è proprio di questo furto identitario che il testo parla. Seguendo le vicende dei più diversi personaggi, da Fati a Topo, da Santa a Jess, da voci senza nomi e spiriti che sussurrano nelle orecchie del lettore, Ladri di denti è una sorta di raccolta di racconti che spaziano dai generi più diversificati, attraversati però da un filo rosso che rende coeso questo universo in cui i diversi protagonisti e fantasmi si muovono: la relazione conflittuale che esiste tra gli immigrati dei diversi paesi, la popolazione nera italiana e gli italiani bianchi. Ognuna delle vicende dei racconti è filtrata dalla prospettiva marginale dell’autrice, una donna nera che appartiene alla classe proletaria, che vive nel Sud Italia, figlia di immigrati, artista e attivista. In Ladri di denti, Djarah Kan mostra le difficoltà che le seconde generazioni vivono nell’Italia di oggi, scissi tra due continenti, tra due identità che, per loro, possono convivere senza contraddizioni, andando a caratterizzare la bellezza dei loro corpi, delle loro soggettività e individualità. La lotta, quella vera, sta nel farsi accettare come individui dalla società bianca italiana, che non riesce a comprendere quella dualità identitaria che, ai suoi occhi, fa di queste generazioni degli “italiani mancati”. Legando assieme temi quali la dignità, il colonialismo, l’oppressione di classe, le questioni di genere razziali e l’omofobia, Djarah Kan rompe il silenzio che grava sui corpi come il suo e ne denuncia le atrocità che questi subiscono, con lo scopo di far emerge la violenza quotidiana subìta alla luce del sole.
Non ci sono storie di italiani bianchi finiti in centri di igiene mentale per il mancato ottenimento della carta d’identità. Non ci sono bianchi che danno di matto perché la questura o la prefettura non li convoca per rilevare le impronte. Ma ci sono neri che perdono la testa per queste cose. Che finiscono senza vestiti e mutande a urlare per strada che sta per arrivare la fine del mondo. Forse quella fine è reale, è la fine del loro mondo, ma è allo stesso tempo un mondo che si manifesta sotto gli occhi dei bianchi, senza essere mai veramente visibile. (pp. 57-58)
E poi basta. Manifesto di una donna nera italiana di Espérance Hakuzwimana Ripanti People, ottobre 2019 pp. 240 € 15 (cartaceo) € 9,99 (ebook) Clicca per comprare il libro |
Per me casa non è l’Africa in cui sono nata per caso e nemmeno l’Italia in cui sono cresciuta a stento. Non sono nemmeno le parole scritte sulla carta d’identità o le caselle sulla nazionalità che ho segnato per tranquillizzare chi mi doveva assumere, conoscere, valutare, premiare. Ci sono concetti complicatissimi da piegare in un mondo fatto di etichette, quadrati, contenitori e contenuti. (p. 178)
Corpi estranei di Oiza Queens Day Obasuyi People, ottobre 2020 pp. 160 € 15 (cartaceo) € 9,99 (ebook) Clicca per comprare il libro |
A questo punto bisogna cercare di capire cosa rimanga di tutto ciò. Se l’Italia sia pronta a fare i conti con il proprio passato e a riconoscere di essersi macchiata dei peggiori crimini e delle peggiori disumanizzazioni dei corpi neri. Partendo da qui è possibile affrontare e decostruire la percezione che si ha oggi dei corpi degli uomini neri e delle donne nere presenti in Italia. (p. 22)
Quelli di Kan, Ripanti e Obasuyi sono testi che toccano la storia di tutti noi, la (mancata) interpretazione che diamo al periodo coloniale, l’antropologia e l’etnografia di una società che - anche se l’Italia non vuole ammetterlo - sta diventando plurirazziale e multiculturale, la politica dei corpi, la letteratura postcoloniale e la demistificazione delle narrazioni “ufficiali”, la questione identitaria e il diritto all’appartenenza geografica e culturale. Nella loro posizione di donne, nere e scrittrici, le loro parole riscattano il mondo dei subalterni in cui il potere politico del nostro paese tenta inevitabilmente di relegarle: loro alzano la voce, scendono in piazza, scrivono, partecipano, resistono, costruiscono e decostruiscono. Ci esortano a ribellarci con loro, invitandoci all’empatia e all’ascolto delle loro storie che non possiamo conoscere se non attraverso le loro narrazioni. Bisogna lasciare da parte l’arroganza bianca che pretende di “parlare di” o “parlare al posti di” queste persone; quello che Oiza, Djarah e Espérance ci invitano a fare è sederci di fianco a loro, imparare dalle loro esperienze, ascoltare le loro ferite generate dalla società bianca e, poi, parlare “vicino a loro” e “con loro”. L’invito è quello di creare una polifonia di voci dove ognuno meriti la propria personale dignità umana. Tre scrittrici, dunque, che utilizzano il loro corpo come luogo di ri-significazione politica, identitaria e culturale, per dimostrare la necessità di andare oltre l’angusto concetto di nazionalità. In questo modo, le seconde generazioni di afropolitani diventano i protagonisti della re-visione di un passato violento per cui la società bianca italiana deve ancora chiedere scusa.
Nicola Biasio