La restauratrice di libri
di Katerina Poladjan
SEM, febbraio 2021
Traduzione di Emilia Benghi
pp. 224
€ 18 (cartaceo)
€ 8,99 (ebook)
Ascoltare quello che la Storia ufficiale racconta è spesso fuorviante. Secondo storici, politici, intellettuali e studiosi, alcune tragedie umane sono più degne di essere ricordate rispetto ad altre. Ci sono popoli che lottano costantemente contro il negazionismo contemporaneo, che gridano ancora affinché gli orrori del passato vengano riconosciuti come tali. Oggi, chi si ricorda ancora degli armeni? Chi si ricorda che questo è stato uno dei primi popoli a convertirsi al cristianesimo (circa nel 301 d.C.) in Anatolia? Chi si ricorda che gli armeni erano l’ultima enclave cristiana all’interno dell’Impero ottomano, quindi temuto dai vertici statali? Chi si ricorda che già nel periodo antecedente alla Prima guerra mondiale (nel 1890) si verificarono le prime stragi armene per mano dei turchi, fino ad arrivare al 1909, anno in cui si registrò lo sterminio di almeno 30.000 persone nella regione della Cilicia? Chi si ricorda delle motivazioni che diedero origine a quello che oggi viene considerato il primo genocidio dell’età contemporanea?
Lo sterminio e la deportazione di massa della popolazione armena tra il 1915 e il 1917 vanno letti alla luce dello sgretolamento dell’Impero ottomano alla fine del XIX secolo e del suo crollo definitivo alla fine della Prima guerra mondiale. Gli armeni erano la minoranza religiosa più significativa dell’Impero; la tensione tra turchi e armeni si acuisce nel momento in cui gli zar di Russia si proclamano protettori dei cristiani d’oriente. Temendo l’alleanza armena con la Russia, la Turchia – contrariamente a quello che si crede e si dice – mette in atto un massacro deciso, organizzato e pianificato che vede come vittime gli armeni; a partire dal 1915 gli armeni maschi in età da servizio militare vengono concentrati in “battaglioni di lavoro” dell’esercito turco e poi uccisi, mentre il resto della popolazione viene deportato verso la regione di Deir ez Zor in Siria con delle marce della morte che coinvolsero più di un milione di persone: centinaia di migliaia morirono di fame, malattia, sfinimento o furono massacrati lungo la strada. In armeno, il genocidio viene chiamato Medz yeghern, “il grande crimine”, nel quale si stima che persero la vita circa 1,2 milioni di armeni. Eppure qualcuno si ricorda di questo popolo, afferma Antonia Arslan in un’intervista. Paradossalmente, la memoria del genocidio degli armeni è una memoria che cresce sempre di più nei nostri giorni; i discendenti di terza generazione dei sopravvissuti tornano indietro al passato traumatico delle proprie famiglie per riportare alla luce gli spettri del genocidio. La percezione e la coscienza di questo momento storico si amplificano, riflettendosi nei più diversi campi quali le ricerche d’archivio, gli studi accademici e storiografici, e le produzioni artistiche. Come sole poche altre arti sanno fare, la letteratura ha in questa rivisitazione del passato un ruolo di fondamentale importanza. Ed è qui che situiamo La restauratrice di libri, l’ultimo libro di Katerina Poladjan finalista del German Book Prize 2019, edito in Italia da SEM.
La restauratrice di libri è un romanzo che fa della rimozione collettiva del genocidio armeno il suo punto di partenza. Helene Mazavian è un’esperta restauratrice di libri tedesca ma con origini armene da parte di sua madre, Sara. Il passato, insieme alla storia, appare nella vita di Helene solo attraverso lapsus amnesici di un’infanzia trascorsa tra i collage che sua madre crea con fotografie di cadaveri dei bambini armeni massacrati e i pochi racconti riguardo le tristi esistenze della nonna Lilit’ e la bisnonna. La contestualizzazione storica appena rievocata non appare nel libro, se non attraverso una vaga menzione alle attuali tensioni tra armeni e turchi nel processo di riconoscimento del “grande crimine”. Helene, dunque, non si preoccupa del suo passato, e tanto meno del fatto di essere armena. Restaura libri, viaggia e ama Danil, il suo fantasmatico compagno che appare unicamente come voce dall’altra parte della linea telefonica. Tutto è destinato a cambiare quando Helene atterra a Erevan, capitale dell’Armenia, per restaurare antichi manoscritti deteriorati e imparare le tecniche della legatoria armena. Tra tutti i reperti, le viene affidato un evangeliario del XVIII secolo che riporta nel colophon (che giustamente in armeno si chiama hišatakaran, “memoria”) la lista di tutti coloro che lo hanno custodito, fino ad arrivare, nel 1915, tra le mani di una famiglia che vive sulla costa del Mar Nero. Helene si prepara ad un restauro complicato, accompagnata da bisturi, pinze, aghi dai diversi diametri, fili colorati, processi alchemici di estrazione del colore e pigmentazioni tipiche della tradizione armena. Scrostando gli strati di ricordi e memoria che si sono depositati sulla carta, Helene scopre una frase scarabocchiata sul bordo di una pagina: «Hrant non si sveglia, aiutami, fallo svegliare» (p. 48). Come una ferita che non smette di sanguinare, la narrazione a questo punto si sdoppia, alternando due spazi temporali che tacitamente convivono e si influenzano a vicenda. La narrazione torna indietro al 1915 e segue le vicende degli ultimi proprietari dell’evangeliario, Hrant e Anahid, fratello e sorella in fuga verso la costa dopo il massacro della loro famiglia da parte dei soldati turchi; allo stesso tempo, un secolo dopo, Helene inizia inspiegabilmente a dover fare i conti con l’eredità traumatica del genocidio che, nonostante il suo rifiuto, le appartiene. Accompagnata da una fotografia che la madre le ha regalato e che ritrae tutta la sua famiglia armena, Helene si metterà in viaggio nell’Armenia di oggi - paese in cui «ci si preoccupa più del passato che del futuro» (p. 29) e dove il suo popolo «ha sempre avuto paura di sparire» (p. 46) – per spingersi dall’altra parte del monte Ararat in Turchia e per arrivare fino alla costa del Mar Nero, decisa ad andare fino in fondo alla realtà della storia dei due bambini, la quale sveglia in lei anche la necessità di cercare i membri ancora vivi della sua famiglia armena.
Il percorso di Helene ne La restauratrice di libri è un viaggio attraverso la memoria dolorosa di un passato traumatico, il senso ancora attuale di perdita e lutto e soprattutto la storia di esilio in cui è ancora inscritto il popolo armeno. Le due strade percorse dai protagonisti sono emblematiche nella rivisitazione della storia armena: la marcia di Anahid e Hrant per mettersi in salvo è il capovolgimento eroico delle marce della morte a cui venivano sottoposti gli armeni e in cui venivano massacrati; il viaggio di Helene rappresenta invece la lotta contro il negazionismo contemporaneo del genocidio, contro le falsificazioni della storia e, prima di tutto, contro l’oblio di un popolo. Alternando passato e presente, La restauratrice di libri permette di riscoprire il popolo armeno nella sua magia, nelle sue tradizioni e nella sua cultura, restituendo agli armeni la dignità di persone precise e con una forte identità etnica che fa da ponte tra Oriente e Occidente, e non solo genericamente come un popolo perseguitato. E nel riscoprire questo popolo, lo si cerca anche di salvare. Katerina Poladjan riprende il concetto elaborato da Heinrich Heine di libro come patria portatile, di letteratura come luogo in cui le identità a rischio possono essere salvate dall’oblio e offerte ai postumi come il luogo di ritorno e sopravvivenza di un passato dimenticato. In questo senso, una restauratrice come Helene non è solo chi ripara il libro inteso come oggetto fisico e materiale, ma anche colei che restaura il passato e la storia, permettendo a quei soggetti che altrimenti rimarrebbero sommersi di vedere la luce del ricordo attraverso le pagine in cui sono stati immortalati: «Non ha mai la sensazione, signora Gevorgian, che un libro sia qualcosa di più che carta, muffa, inchiostro e cuoio? Quando torno a casa la sera questo libro mi manca, come se fosse una cosa viva» (p. 136). La restauratrice di libri ha due finali, che non sono da leggere come uno tragico e uno positivo, ma la conclusione di due storie separate da un secolo di eventi e che, tramite un evangeliario del XVIII secolo, si intersecano inevitabilmente, e inevitabilmente conducono ad una lotta comune: sopravvivere, nonostante tutto.
Nicola Biasio
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