#LectorInFabula - La luce che tiene in vita nel buio: ventisette storie dalla Shoah per la memoria dei giovanissimi nel libro di Matteo Corradini



Luci nella Shoah
di Matteo Corradini
DeAgostini, 2021

pp. 224 
€ 12,90 (cartaceo)
€ 6,99 (ebook)

 
“Le cose che mi hanno tenuto in vita nel buio”. Questo è il sottotitolo, splendidamente incisivo, del nuovo volume di Matteo Corradini, edito da DeAgostini in prossimità della Giornata della Memoria. In effetti, al centro delle ventisette storie derivate dalla Shoah che l’autore propone, si ritrova il filo conduttore della luce, che può essere una luce concreta, come la lampadina che Anne Frank e Etty Hillesum avrebbero voluto poter accendere sopra al proprio letto, ma è soprattutto luce interiore, una forza che dirompe, che sostiene e riesce a rischiarare anche la tenebra oscura, apparentemente impenetrabile, della volontà di sterminio nazista. In comune i protagonisti delle vicende selezionate da Corradini hanno la consapevolezza che finché permane in loro la sete di vita, l’adesione profonda e continuamente alimentata al reale, il male non può trionfare, il nemico non può avere la meglio, non può dominarli davvero. Molto spesso, l’aggancio alla realtà è materiale, tangibile: un oggetto che sta in una tasca, in una valigia, che si può portare addosso, o di cui si serba il ricordo nella lontananza. Un oggetto esibito, come il maglione rosso che lampeggia in una fuga, disperata e vittoriosa al tempo stesso, sui tetti del ghetto di Varsavia; un oggetto-àncora, come un piccolo orologio che parla di un tempo futuro da attendere; un oggetto-condivisione, come un ricettario su cui si chinano diverse teste femminili in una sorellanza che nasce inaspettata nelle cucine di Terezín; un oggetto-famiglia, come una bambola a cui una bambina può aggrapparsi quando tutto intorno sembra sgretolarsi. Veri e propri salvagenti, spie luminose nel buio, di questi oggetti rimane traccia nel fitto apparato iconografico che correda il testo, a trasportare anche il lettore nella concretezza di quanto raccontato.

 

Con uno stile piano, semplice e accessibile, l’autore si rivolge a un pubblico giovane, a cui si vogliono fornire, mediate dalle diverse narrazioni, informazioni chiare e precise sulla Shoah, i suoi luoghi, i suoi modi, i suoi tempi. Non c’è peraltro alcun tentativo di addolcire la verità dei fatti: non tutte le vicende si concludono felicemente, non tutti i personaggi sopravvivono, ma di tutti si celebra la forza, la resistenza, la speranza. Le cose che tengono in vita possono essere anche sogni da conservare intatti, o piccoli atti di ribellione. Spesso a salvare è la musica, come nella storia dell’ebreo francese di origini algerine Henri Akoka che, nel campo di prigionia di Görlitz, insieme all’amico Étienne Pasquier incontrò il noto compositore Olivier Messiaen, in procinto di scrivere il suo Quartetto per la fine del tempo da far riecheggiare tra le baracche del lager, metafora preziosa e vibrante della vita che resiste e risuona nella sua pienezza:
Suonare assomiglia al canto degli uccelli all’alba, assomiglia alla libertà, e ricorda che il proprio destino non è fatto solo di mangiare, scaldarsi, sopravvivere fino a sera. È fatto anche di vita, di desideri, di sogni, di cose apparentemente inutili, come un pianoforte in un lager nazista. (p. 95-96)
In altri casi è la poesia, che rimane cristallizzata in versi anche per i lettori del futuro. Tutto ciò che viene dall’esistenza precedente, che ricorda una dimensione di sé che rischia di essere snaturata dalla routine concentrazionaria, può farsi puntello per la personalità, contribuire a creare dei momenti di quiete all’interno della tempesta, in cui è ancora possibile immaginare un domani. Le singole storie, che risultano autoconclusive e possono perciò essere lette anche singolarmente, diventano serbatoio di valori validi per tutti i tempi, retaggio prezioso di quella memoria che deve essere tramandata, soprattutto per il pubblico dei giovanissimi, per cui gli eventi narrati rischiano di essere sempre più passato remoto. Il volume di Corradini ci insegna infatti che proprio nel tempo della pace, della tranquillità, quando il buio sembra lontano, si deve coltivare il terreno fertile delle risorse interiori, si devono affondare le radici di quella luce interiore che un domani potrebbe portare fuori dall’oscurità:
Lei non è impreparata: canta, legge, ama. È l’allenamento giusto per il tempo del dolore. Perché a qualcosa bisogna pur aggrapparsi, anche a qualcosa di fragile e leggero come una canzone o una danza o un sogno. Se non li hai piantati in te nei giorni di luce, non nasceranno nei giorni di buio. (p. 201)

Carolina Pernigo