di Nina Berberova
Adelphi, 2020
Traduzione di Donatella Sant’Elia
pp. 79
€ 10,00 (cartaceo)
€ 6,99 (ebook)
Fin dai primi anni della mia giovinezza pensavo che ognuno di noi ha la propria no man’s land, in cui è totale padrone di se stesso. C’è una vita a tutti visibile, e ce n’è un’altra che appartiene solo a noi, di cui nessuno sa nulla. Ciò non significa affatto che, dal punto di vista dell’etica, una sia morale e l’altra immorale, o, dal punto di vista della polizia, l’una lecita e l’altra illecita. Semplicemente, l’uomo di tanto in tanto sfugge a qualsiasi controllo, vive nella libertà e nel mistero, da solo o in compagnia di qualcuno [...]; vive di questa sua vita libera e segreta da una sera (o da un giorno) all’altra, e queste ore hanno una loro continuità. (p. 36-37)
Essere privati di questa no man’s land
significa non arrivare mai a conoscersi davvero, ma soprattutto rinunciare alla
possibilità di una piena autodeterminazione. Ecco perché bisogna essere disposti a lottare in nome di questo spazio interiore,
che non necessariamente è spazio di solitudine, ma può essere invece occasione di
un incontro più profondo e vero con l’altro che ci è affine. Ecco perché
bisogna essere disposti a sacrificare
ciò che ci tiene legati a una realtà di superficie, che ci fa sprofondare
nella mediocrità di un certo vivere quotidiano, nel compromesso imposto da chi
pensa di poter decidere di noi e del nostro destino: “basta cedere una volta – e non ci saranno più limiti, e tutto ti verrà
tolto; dov’è il confine, Ejnar? Dove saranno allora mistero e libertà?”, p.
77). Si comprende per via, e con un’inaspettata commozione, che quella narrata
da Nina Berberova è indubitabilmente una storia d’amore, ma prima di tutto è la storia dell’amore verso se stessi,
che è preludio a ogni altro amore, e verso ciò che nella propria esistenza è
inconoscibile, indeterminabile, e che nessuno può sottrarre a meno che non gli
venga concesso. C’è un che di pungente, di vivo, nella prosa di Berberova, che
rende universale la vicenda narrata
e porta il lettore a interrogarsi sulla propria vita, con quella forza e
quell’immediatezza che sono proprie della grande
letteratura. La citazione di Tjutčev assume allora, in coda all’opera, una
nuova valenza e la protesta del giunco mormorante diventa la lotta di chi
oppone profonde radici alla forza lacerante della tempesta, di chi sa scegliere
di essere fedele sopra ogni altra cosa alla propria coscienza, alla propria
interiorità.
Carolina Pernigo