«I matti sono nostri fratelli. La differenza tra noi e loro è un tiro di dadi riuscito bene»: "L'arte di legare le persone", il memoir di Paolo Milone

paolo milone l'arte di legare le persone



L'arte di legare le persone
di Paolo Milone
Einaudi, gennaio 2021

pp. 191
€ 18,50 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)


Quando ho tenuto tra le mani L'arte di legare le persone, il memoir di Paolo Milone, ho subito pensato a un altro libro amatissimo che racconta la vita accanto a chi ha profondi disequilibri e malattie mentali: no, non Sacks (comunque autore amatissimo), ma a Mario Tobino con le sue Libere donne di Magliano. E non solo per l'ambientazione manicomiale/ospedaliera; soprattutto per l'attenzione al paziente, che diventa persona non da osservare come un animale in gabbia, ma da conoscere da vicino, provando talvolta quell'empatia e sperimentando il talento di entrare in sintonia con l'altro, ovvero con chi ha avuto forse solo più sfortuna di noi:  
[...] I matti sono nostri fratelli. La differenza tra noi e loro
è un tiro di dadi riuscito bene
- l'ultimo dopo un milione di uguali -
per questo noi stiamo dall'altra parte della scrivania.
(p. 23)
Avrete notato subito che siamo davanti a frammenti di prosa lirica; non sembra che questo sia un vezzo stilistico; anzi, pare un modo per esprimere appieno la relazione con l'altro, in una forma talvolta sincopata, altre volte più distesa, altrove piena di silenzi un accapo, una messa in rilievo di parole in punta di verso possano fare la differenza. Sono i temi e le individualità dei soggetti narrati che chiedono all'autore di piegare la prosa a qualcosa di diverso. Poesia? Spesso. Divertissement? Qualche volta (specialmente dove si commenta il lavoro dei colleghi, ironizzando su alcuni vizi o alcune propensioni che fanno, in effetti, pensare a qualche turba). Riflessioni? Non poche. Come questo frammento, da cui è tratto il titolo polisemico della raccolta: si tratta di un testo che viene ritmato dall'iterazione e da una variazione che evidenzia la seconda metà del verso, in una cadenza incantatrice.  
L'arte di legare le persone.
Legare le persone al letto. 
Legare le persone a te.
Legare le persone alla realtà.
Legare le persone a se stesse.
Legare le persone è un'arte.
Inconoscibile.
(p. 160)
Ma veniamo ai temi: L'arte di legare le persone è sicuramente un'opera autobiografica, in cui però l'io lascia spesso la parola agli altri, ovvero ai già citati colleghi, ma soprattutto ai pazienti. L'io è l'occhio che guarda, la persona che sente, avverte l'altro e lo accoglie. Non esistono formule precostituite, né studi che permettano di entrare in sintonia con l'altro; il tanto famigerato "occhio clinico" si costruisce con l'esperienza, ma è anche legato al talento e al rischio (professionale ma spesso anche fisico e psicologico) di entrare a contatto con l'altro. 
[...] Questa gente perduta, come in un incendio o in alto mare, io la vado a prendere.
E come fai? 
Improvviso. 
(p. 34)
Sulla soglia i miei occhi, senza che io volessi, ti hanno chiesto: chi sei?
I tuoi, senza che tu volessi, hanno indicato la pioggia ai vetri.
Ci siamo poi presentati l'un l'altra con parole di circostanza.
Non servivano.
Eravamo già complici, io e la tua tristezza.
(p. 99)
In questi due esempi cogliamo alcune caratteristiche frequenti nell'opera: da un lato, l'irruzione del lavoro nella propria vita privata (il primo passo citato è uno stralcio di conversazione a una cena); dall'altro, l'io entra in rapporto diretto con il "tu", con il paziente, che spesso viene chiamato col suo nome, rendendolo ben riconoscibile anche al lettore. I casi non restano tali; diventano storie di vita, che si intrecciano profondamente in una trama composita e preziosa: che cosa accadrà a Lucrezia? Ad Anna? E a Filippo? Alcune risposte arrivano, e scopriamo pagine dopo - vite dopo - che cosa ne è di loro, tra passi avanti, drammi, richieste di attenzione senza chissà quale esito. Fin dalla sala d'aspetto si delineano caratteristiche da non trascurare:
[...] La sala d'attesa è un mondo, ed è già clinica: c'è molto da imparare.
Lì l'aggressivo è aggressivo, l'ansioso è ansioso,
quella è la realtà: la visita è una rappresentazione. 
(p. 82)
Le storie rintoccano l'una nell'altra e trovano come straordinario aggregatore proprio lo psichiatra, che non è impermeabile a quel che accade in reparto; anzi. Paolo Milone non desidera ergersi a eroe: delinea spesso i limiti della disciplina e anche i propri e quelli dei colleghi, ma accanto a questa smitizzazione (spesso denunciata con un tocco di ironia) ritroviamo dedizione assoluta, professionalità, passione per un lavoro che può intimorire e tenere a distanza chi non ne sa niente. I vari frammenti si giustappongono e si fondono gli uni agli altri toccando questi poli opposti, suscitando così in noi lettori un continuo affastellarsi di emozioni, che prima introiettiamo e che poi rimettiamo in ordine dentro di noi, sentendoci assolutamente arricchiti. 
Concludo con il mio frammento preferito, che ha un attacco che non può non ricordare Montale: 
Non usare con me parole nuove, moderne, appena nate,
camminano a quattro zampe, si infilano dappertutto
e le trovi dove non possono stare. 
Non usare con me parole vecchie, auliche, importanti,
paiono voler dire chissà che ma poi non dicono nulla.
Non usare con me parole di altri, appena udite e subito imparate,
io mi distraggo e guardo dalla finestra
più interessato al gracidare delle rane.
Non usare con me altre parole che non siano le tue.
Le accoglierò come ospiti care in ritardo a una festa,
sbatterò la pioggia dai loro vestiti, riporrò i loro ombrelli
e le farò accomodare in salotto. 
(p. 28) 
GMGhioni