La città di vapore
di Carlos Ruiz Zafón
Mondadori, febbraio 2021
Traduzione di Bruno Arpaia
pp. 178
€ 18,50 (cartaceo)
€ 9,99 (e-book)
Audiolibro disponibile
La commedia ci insegna che la vita non bisogna prenderla sul serio e la tragedia ci insegna cosa succede quando non diamo retta a ciò che la commedia ci insegna. (p. 85)
Avere tra le mani questa raccolta di racconti di Carlos Ruiz Zafón, fresca di stampa Mondadori, e rendersi conto che è l'ultima volta che sentiremo la sua voce narrativa trasportarci nel suo mondo fantastico, onirico, nel suo universo di mistero e incantamento, è una sensazione struggente. Colpisce come una staffilata. Per il lettore che, come me, ha amato nel profondo lo scrittore catalano e ha letto tutti i suoi romanzi, rappresenta la consapevolezza fredda e inevitabile che altro non leggerà più, che l'unica strada per ritrovare quelle sensazioni che tanto lo hanno scosso alla lettura dei suoi libri, sarà soltanto rileggerli. Sperando di averli dimenticati nel frattempo. Carlos Ruiz Zafón, dal 19 giugno dell'anno scorso, non è più di questo mondo, ma è andato ad alimentare quella lunghissima schiera di scrittori che da qualche parte nell'Universo, in qualche Limbo, si scambiano libri, idee, letture, tutti insieme liberi da luoghi di nascita o epoche di vita.
E allora via, con un misto di commozione e trepidazione, mi appresto a percorrere quest'ultimo giro nel mondo immaginario di Zafón. Che trova il suo luogo di elezione nella sua Barcellona, città che lo scrittore aveva lasciato da tempo, ma che non poteva essere scalzata da nessun altro luogo al mondo come scenario delle sue narrazioni. È una Barcellona buia, fredda umida, avvolta dalla nebbia, sferzata dalla pioggia, una vera e propria città di vapore. E all'interno di questa bruma si muovono i personaggi che il lettore fedele di Zafón ha già ritrovato negli altri suoi romanzi, come David Martín, Antoni Sempere, Andreas Corelli, e tante altre creature uscite dalla fantasia dello scrittore.
Non un romanzo, ma una raccolta di racconti, si diceva, 11 testi, alcuni inediti, altri usciti su giornali, come Magazine o La Vanguardia, altri ancora pubblicati in edizioni non commerciali, riuniti comunque per la prima volta a formare un unicum organico.
Tutto parte, nel racconto Blanca e l'addio, con David Martín (proprio il giovane aspirante narratore de Il gioco dell'angelo) e con la scoperta della sua capacità di raccontare storie che attirano e lasciano a bocca aperta la bella bambina di buona famiglia che non avrebbe mai potuto essergli amica se non per la gioia del racconto. E David, piccolo Carlos, racconta le stesse atmosfere che l'autore porterà nei suoi romanzi, in un gioco di specchi metaletterario.
Ma non sono solo i personaggi dei romanzi maggiori a fare la propria comparsa in questi racconti. C'è il Labirinto dei libri, o meglio, i disegni di questa biblioteca immaginaria che il grande costruttore arrivato dall'Oriente, ultimo sopravvissuto di una nave colpita dalla maledizione, aveva portato con sé. E la mente di tutti corre al Cimitero dei Libri Dimenticati, che ha dato origine alla tetralogia aperta da L'ombra del vento e nella quale tutti abbiamo sognato di perderci. Ci sono le marionette che ravvivano le tetre notti barcellonesi del racconto Uomini in grigio. E la mente corre agli automi di Marina. E poi i palazzi decadenti, misteriosi, pronti ad andare in fiamme, le presenze eteree, immagini o fantasmi?, le carrozze nere che sfrecciano sul selciato delle Ramblas, le prostitute dal volto antico, le ragazze vestite di bianco dalle labbra esangui. tutti gli elementi, insomma, che hanno sempre animato l'immaginario zafoniano.
C'è in più l'omaggio a due grandi spagnoli, l'uno il re della narrativa, Miguel de Cervantes, l'unico scrittore spagnolo ad aver venduto più copie di Zafón, protagonista del racconto più lungo, Il Principe del Parnaso, alle prese con un'offerta diabolica, scrivere un capolavoro al prezzo di perdere ciò che più ama. L'altro è il grande architetto, il genio che ha saputo trasformare Barcellona lasciandole quell'aura magica che tutti conosciamo, quell'Antoni Gaudí che riuscì a immaginare quella cattedrale infinita, onirica, simbolica, fantastica che è la Sagrada Familia. Che, se non l'avesse concepita Gaudí, l'avrebbe potuto fare tranquillamente Zafón in uno dei suoi romanzi, punteggiati di edifici grandiosi, illusori come le sale degli specchi dei luna park, fabbriche in disuso, ciminiere, torri, minareti, archi rampanti, sculture diaboliche e ghignanti. E cattedrali, come Santa Maria del Mar.
Ci fu un tempo in cui le strade di Barcellona si tingevano di luce a gas al tramonto e la città si svegliava all'alba circondata da un bosco di ciminiere che avvelenava il cielo di scarlatto. Barcellona assomigliava allora a una falesia di basiliche e palazzi intrecciati in un labirinto di vicoli e tunnel intrappolati sotto una bruma perpetua dalla quale spuntava una grande torre con angoli da cattedrale, guglia gotica, gargolle e rosoni, al cui ultimo piano risiedeva l'uomo più ricco della città, l'avvocato Eveli Escrutx. (p. 123)
Si arriva in un volo all'ultima pagina del libro, all'ultimo racconto, quando l'ultima pagina bianca ci risveglia da quel sogno nel quale Zafón ci ha condotti per mano, con il suo linguaggio spesso, denso di significati, incantatore e ammaliatore, capace di rendere verosimile, perché calata tra i muri della città, l'apparizione più arcana. Una scrittura dotata della capacità di ricostruire visivamente le architetture del mistero ordite dalla trama, una narrazione nella quale i dialoghi, solenni ed eleganti, contribuiscono alla costruzione dell'atmosfera enigmatica e segreta. Merito anche della traduzione di Bruno Arpaia (sue le traduzioni di quasi tutti i suoi libri, tranne curiosamente il primo della quadrilogia, L'ombra del vento), che si è calato anima e corpo nel mondo di Zafón, facendolo suo, parlando con la sua voce, ricostruendo per noi italiani l'universo linguistico e fantastico del grande autore spagnolo.
Sabrina Miglio