La vita dentro
di Edwidge Danticat
Sem, 2020
Traduzione di Velia Februari
pp. 350
€ 18 (cartaceo)
€ 8,99 (Ebook)
Edwidge Danticat con La vita dentro compie qualcosa di essenziale: a partire da un’esperienza e un sentire specifico, personale e letterario, riesce a trasporlo in racconti che si aprono a una riflessione più ampia, si spostano dal centro della narrazione per assumere un significato universale, tale è la portata di tematiche e spunti con cui interpretarli anche alla luce dell’attualità. In quel sottotitolo, “racconti haitiani”, c’è il centro, ma la riflessione su migranti, povertà, emarginazione, paura, radici, è qualcosa che va ben oltre la specificità geografica e storica. E che, senza per questo sminuire di valore la tradizione su cui si posa, ne amplifica di molto la portata. La diaspora haitiana è lo sfondo-passato che permea tutta la raccolta ma è ciò che questo esodo comporta a costituire il cuore della narrazione e quella trascendenza da un contesto storico geografico preciso.
Negli otto racconti di cui La vita dentro si compone, Danticat intreccia un discorso su identità, tradizione, nostalgia e memoria, sull’emarginazione e le difficoltà dei migranti – una realtà che lei stessa conosce, haitiana naturalizzata statunitense – e sulle cicatrici che ci portiamo addosso, talvolta visibili agli occhi altre meno facili da riconoscere. Ma soprattutto il fil rouge che lega queste storie e che attraversa buona parte della produzione letteraria dell’autrice è l’interesse per l’universo femminile, esplorato da angolazioni diverse, di cui Danticat scandaglia zone d’ombra, sentimenti e istinti, in un ritratto che si fa carne e sangue. Donne tradite e prese in giro, giovani in cerca di una stabilità mai conosciuta, ragazze ingenue che inseguono un riscatto impossibile, madri che stanno perdendo i fili della memoria, altre che lottano con un sentimento ingombrante.
Molte forme di dolore attraversano la pagina, cui Danticat riesce a dare voce senza cedere al pietismo, ma raccontandolo nella sua quotidianità, nell’incapacità di comprendersi, nelle maschere che talvolta si indossano. Ecco allora che le cicatrici si fanno visibili, tangibili – un volto e un corpo segnati dalla tragedia del terremoto – o per i segni del tempo che raccontano la sofferenza e improvvisamente si svelano a uno sguardo attento.
Jeanne non ha mai letto il dolore sul viso di suo padre, perché non lo ha mai cercato. Non ha mai prestato attenzione alla sofferenza altrui. Ma ora vede quanto sia cambiato. Ha i capelli più bianchi e la voce strascicata. Ha gli occhi rossi per la mancanza di sonno, la faccia logorata dalla preoccupazione. (“Alba, tramonto”, p. 136)
In quel volto segnato leggiamo la sofferenza per la malattia della compagna, la resa di fronte all’inesorabilità della perdita, una maschera che improvvisamente cade a terra. Riconoscersi, anche, dentro il dolore, pur se solo «per un istante, un istante brevissimo». Il vuoto della perdita talmente profondo da sembrare tangibile, come «uno squarcio, una ferita, una cicatrice».
Dentro il dolore interrogarsi su chi siamo, in una continua tensione fra qui e altrove, tradizione e perdita.
Sospesi tra due mondi, i personaggi di Danticat si muovono fra Stati Uniti e isole caraibiche, non più haitiani, non davvero americani. La nostalgia che si intreccia alla memoria, il trauma di ciò che ci si è lasciato alle spalle – il terremoto, la dittatura, lo sbarco clandestino – , il senso di estraneità e di non appartenenza.
Partenze, ritorni, fratture attraversano la pagina, si legano all’intima tragedia di ognuno di questi personaggi, al desiderio disperato di una stabilità mai conosciuta:
Io sarei sempre stata la persona – la donna – che avrebbe sempre cercato la stabilità, un porto sicuro. Avrei sempre tenuto a mente di poter perdere tutto ciò che avevo, compresa la vita, in un istante. (“Mongolfiere”, p. 120)
L’istante, essenza della forma racconto, l’effimero, il frammento che Danticat porta in superficie. E, ancora, nell’essenza del racconto la capacità di scandagliare quelle zone marginali, problematiche, controverse, le ombre: raccontando, per esempio, una maternità controversa, il carico di responsabilità, sentimento, paura, che comporta, un misto fra amore ed estraneità.
La maternità è una specie di bolla fumosa da cui non riesce a emergere abbastanza a lungo da poter abbracciare suo figlio. Strano a dirsi, ma Jude è un bravo bambino. Dorme tutta la notte sin dal giorno in cui l’hanno portato a casa. Fa dei lunghi sonnellini. Non ha le coliche e non è irrequieto. Però c’è. (“Alba, tramonto”, p. 130)
Danticat non si tira indietro nell’esplorare certe zone d’ombra, nel discorso sulla maternità o, per esempio, sulle relazioni: il senso di colpa di un’amante per aver desiderato la morte della famiglia dell’uomo che ama, l’inganno e il tradimento di un’amica che ha distrutto ogni cosa, le distanze, le crepe sempre più marcate sulla facciata.
Quelle cicatrici, ancora, da nascondere dietro la maschera con cui scegliamo di mostrarci al mondo, simulando indifferenza per il pettegolezzo, le malignità, le etichette.
In continua tensione fra qui e altrove, alla ricerca di un’identità e un luogo da che sia casa a tutti gli effetti, l'autrice compone un mosaico ricchissimo reso efficacemente dalla traduzione di Velia Februari puntellata di riferimenti precisi a una cultura evocata attraverso i colori, le tradizioni, la lingua.
Raccontare storie è stata un’ancora di salvezza per Danticat, che la diaspora haitiana l’ha vissuta sulla propria pelle, il mezzo per tentare di ricucire uno strappo. Leggerle, per noi, è tentare di comprendere. È costruire un ponte, in un mondo che sembra prediligere i muri.
Di Debora Lambruschini