Dolore e luce del mondo
di Tahar Ben Jelloun
La Nave di Teseo, 1 aprile 2021
Traduzione di Cettina Caliò
pp. 250
€ 19 (cartaceo)
€ 8,99 (e-book)
Nell’ultima raccolta di poesia di Tahar Ben Jelloun ritornano numerosi temi che caratterizzano la poetica del più famoso scrittore francofono contemporaneo. Il razzismo, e in particolare l’estremismo religioso, che Ben Jelloun ha da sempre affrontato sia nei lavori poetici che in prosa, vengono qui distillati grazie al linguaggio poetico, creando una continua alternanza dal piano particolare a quello universale, dal piano della realtà contingente al piano dell’umanità concettuale. Si hanno così componimenti che, traendo origine da fatti di cronaca, vogliono in realtà affrontare un tema ben più ampio, quello che dà il titolo alla raccolta: la lotta tra il Bene e il Male, tra il dolore e la luce.
Ma in La sete del male, il lungo poema che apre la raccolta, il Bene e il Male nascono dalla stessa origine: se il Bene è la divinità in se stessa, astratta, pura luce immateriale, un Dio innominato che non risponde a nessuna religione, il Male è causato proprio da quegli estremisti religiosi che deturpano questa divinità, e che Ben Jelloun attacca ferocemente come diametralmente opposti alla luce. Come dirà poi Ben Jelloun nel terzo componimento della raccolta, anch’esso un lungo poema strutturato come una riflessione generica a partire da un evento di violenza, «Il Male non è il contrario del Bene / ma il suo veleno, il suo miele al cianuro / circola nelle vene» (p. 219). Il Male viene così incarnato nelle pregnanti descrizioni dei terroristi come bestie puzzolenti e sudicie, che, aprendo la raccolta, puntano a colpire il lettore tramite la potenza poietica del linguaggio. Ed è solo in chiusura di questo primo componimento che, tornando dal particolare all’universale, troviamo un esempio di Bene: la gente del villaggio, persone anziane, ragazzini poveri, che chiedono la salvezza di quell’umanità incapace di arrecare dolore al prossimo.
Dopo questo inizio tanto scioccante quanto programmatico, si ha la sezione più lunga dell’opera, Poesie dipinte, una raccolta di brevi componimenti. Il nome è perfettamente rispecchiante le pennellate che sono queste brevi poesie, questi piccoli bozzetti dai toni pastello e dalle linee sottili. Spesso, in queste poesie, l’io poetico si rivolge a un “tu”: anche in questo caso, al lettore non viene concesso di restare in silenzio ad ascoltare, ma viene continuamente interpellato dalle domande di senso dell’io poetico. Ma chi è dunque quel “tu” che può sapere «cosa diventano i ricordi / sfiniti dalla nostalgia» (p. 33) o «cosa il mare fa delle nostre solitudini» (p. 31)? Possiamo noi lettori di poesie rispondere? O è forse a quella divinità di luce che l’io poetico si rivolge? I personaggi che affollano le pagine di questa seconda sezione sono abbozzati a metà tra l’umano e il divino, il materiale e il luminoso, messaggeri di verità che non sanno neppure di conoscere. Quei ragazzini lerci e poveri, quegli anziani infermi che si vedevano già nel finale di La sete del male, quegli elementi apparentemente più deboli della società ma che più di tutti si avvicinano al divino, al Bene supremo. O ancora la donna amata, evocata dagli abbracci e dal «profumo speziato» della notte. Persone vere ed archetipi si alternano in queste pagine, ma rimane sempre la percezione della parola poetica come unico ponte tra realtà e finzione, tra materale e immateriale, tra idea e oggetto.
Dopo questa pausa archetipica, il focus sulla religione vista come entità di Bene, di amore, che però in mano all’uomo può diventare il suo contrario, torna nello spunto reale che dà vita al poema La statua. La sofferenza di una madre che ha appena perso il figlio nell’attacco a un villaggio algerino, immortalata in una famosa foto, appare in tutto e per tutto simile all’espressività delle Madonne cristiane. Quando il Dio è Bene allo stato puro, che senso ha distinguere tra le religioni, e usare queste distinzioni per operare il Male e allontanarsi dalla divinità, provocando dolore ai nostri simili? «Morire è nulla / soffrire è un destino» (p. 215), dice Ben Jelloun, il destino degli umani che l’un l’altro si provocano dolore senza che la luce possa trionfare. Ed è proprio a enfatizzare la necessità della luce che entra in gioco il poeta. La poesia non ha velleità curative, per Ben Jelloun, ma è dovuta; è l’unico scopo che la parola può avere, in questa lotta tra buio e luce che è la vita terrena. «Sebbene la poesia rinunci a sanare il mondo / bisogna che le ferite aperte ricevano le parole che aspettano» (p. 219): con uno scarto si torna dall’universale del mondo al particolare delle ferite di chi ci sta accanto, e il poeta riporta l’attenzione a quel poco che ciascuno di noi può fare – e dire, e scrivere – per aiutare la luce a trionfare.
Dopo questo poema, sconvolgente come il primo, il finale si avvicina per rarefazione nell’ultima sezione, Domande e risposte. Spento l’impeto che in precedenza accompagnava la descrizione del Male, ora la parola torna alla sua essenza di carta velina, il significato coincide col significante, e «il tempo si sgrana senza cancellature» (p. 245). Le domande della seconda sezione restano insolute, ma ora è chiaro che nessuno potrà mai rispondere. Forse l’atto di domandare, di usare le parole per creare relazioni con Dio e con gli uomini, è in sé una risposta, un modo di fruire della bellezza del Bene. Ed è proprio la bellezza della luce che è al cuore del componimento con cui si chiude l’opera: in modo programmaticamente opposto al primo poema, che a partire da un fatto di cronaca rifletteva sull’umanità, ora la riflessione dall’umanità torna sul singolo, elencando in sei regole un piccolo manualetto poetico in cui il singolo uomo può creare luce nella sua esistenza e quella di chi gli sta intorno. «Vivere: abitare la luce dell’infanzia / Resistere: non abituarsi mai al dolore del mondo» (p. 247). Immergersi nel Bene e portarlo a chi ci sta vicino: solo così la luce trionferà sul dolore. Qualsiasi cosa sia questa luce.
Marta Olivi
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