Mondadori, 2021
pp. 215
€ 18,00 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
Per Asia estate vuol dire casa della nonna nel borgo medioevale
sulle colline toscane, vuol dire ritmi lenti, giochi inesauribili insieme
all’amica Matilde; vuol dire anche una parentesi di distacco dai litigi dei
genitori, una pausa dal pensiero dell’ormai prossimo trasferimento a Milano con
la mamma. Vuol dire anche abitudini consuete da rispolverare dopo il distacco
invernale.
La narrazione inizia nel “primo
giorno d’estate che valesse la pena vivere” (p. 11), carico di tutte le aspettative
che una dodicenne può avere di fronte a una stagione piena di promesse. È per
questo che arriva come uno strappo,
violento e del tutto inaspettato, il ritrovamento di un corpo nel folto
della foresta. Si tratta di un giovane uomo, nudo e abbandonato ai piedi di un
grande noce. Se, da tradizione, il bosco è il luogo oscuro delle fiabe, simbolo
delle difficoltà che i protagonisti devono attraversare durante il proprio
percorso di formazione, anche in questo caso diventa pietra d’inciampo per
Asia, per cui l’ombra fitta delle fronde si associa ben presto a quella dei
segreti che inizia ad accumulare dentro e intorno a sé. La ragazzina infatti
non solo non confessa la sua scoperta, ma inizia a frequentare assiduamente la
radura, cominciando a maturare un senso
di fascinazione, quasi un istinto protettivo nei confronti del corpo. Il
morto rappresenta il mistero, il
pericolo, ciò che non si conosce e quindi attrae, il mondo adulto al di là
della soglia. Al contempo, però, è come la proiezione della sua nuova
sensazione di estraneità, di incongruità rispetto al mondo familiare di un
tempo. Una volta taciuta la prima verità, Asia rimane prigioniera del proprio
stesso sentire:
Per un attimo pensò di raccontargli tutto, ma non aveva più parole per dire quello che era successo. Era tornata nel bosco, era stata lì con lui, lo aveva guardato, lo aveva addirittura toccato. Suo padre le avrebbe fatto un sacco di domande e alla fine non avrebbe capito. (p. 54)
Se le figure di riferimento sono poco attente, anche i compagni
delle antiche scorribande appaiono lontani: non c’è più il terzetto
inseparabile di Zanna, Buck e Lupo – nomi di battaglia che hanno scelto anni
prima Asia, Matilde e Mattia –, ma tre individui singoli, che evolvono in
direzioni divergenti e non sembrano più in grado di comunicare. Avviato
(forzosamente, controvoglia) il cammino di crescita, gli amici di vecchia data
si allontanano, i giochi del passato appaiono d’un tratto infantili, i luoghi
hanno perso la loro magia. L’ambiente circostante si rivela meschino,
grottesco:
La festa le dava la nausea, tutto le faceva venire voglia di vomitare: i vecchi pieni di alcol che cantavano in coro, le donne vestite bene che ridevano, i bambini che ballavano scoordinati in mezzo alla piazza e la musica troppo alta che non le permetteva di sentire nemmeno i propri pensieri. (p. 91)
Nonostante non sia immediato entrare in sintonia con la protagonista, La stagione più crudele si configura
come un romanzo sulla difficoltà di
crescere, di trovare un proprio spazio nel mondo adulto. A dominare per la
maggior parte della narrazione è il
senso di disagio della protagonista – che inizia a rendersi conto che chi
la circonda parla una lingua diversa dalla sua, che l’armonia dell’infanzia in
cui si è cullata negli anni precedenti è irrimediabilmente perduta.
Mentre lo sguardo bambino è quello che trasfigura il reale, lo
sguardo nuovo di Asia si arena di fronte alle brutture del mondo e fatica a
metterlo a fuoco. Il bosco diventa
quindi una zona liminale, di passaggio: è necessario attraversarlo,
allontanarsi dalla realtà ristretta del paese, compiere per la prima volta
delle scelte autonome per poter trovare un equilibrio diverso. È necessario
anche, e questo Asia lo capisce bene a sue spese, pagare un pegno, rinunciare a
ciò che è ostacolo o zavorra, distinguere ciò che è prezioso da ciò che non lo
è.
Nonostante parli di adolescenza, il romanzo d’esordio di Chiara
Deiana non è un libro per adolescenti, perché della crescita mette in evidenza,
come si comprende fin dal titolo, in prima istanza le asperità, restituite anche attraverso una prosa che non ha paura del
dettaglio scomodo o scabroso. Può essere interessante invece la lettura per
chi con i giovani ha a che fare, per provare a calarsi in quel senso di
malessere e di straniamento che può cogliere l’adolescente e che è così facile
dimenticare una volta superata quell’età.
Carolina Pernigo
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